giovedì 27 dicembre 2007

Il super treno

E' arrivato il momento di prendere il treno e di portarsi verso la Cina Orientale. Alle mie spalle lascio gli splendidi e selvaggi paesaggi tibetani, cieli limpidi e puliti come probabilmente non ne ho mai visti, cime maestose e un popolo sorridente, pittoresco nei costumi e ospitale. Nelle mie narici avverto ancora il forte odore delle candele di burro di yak, quel particolare aroma che si insinua e permea ogni angolo e stanza di un monastero tibetano. Sto per abbandonare la tranquillita' delle montagne per fare spazio al rumore e alla frenesia della citta' cinese.
Da novembre 2006 la ferrovia ha raggiunto il Tibet. E' un miracolo ingegneristico, interamente cinese. Pensate che il treno, prima di arrivare a Lhasa, a 3600m di quota, raggiunge altezze oltre i 5000m e viaggia su uno strato di terra perennemente ghiacciato (permafrost).

La stazione di Lhasa e' nuovissima, bianca e lucida, e ricorda vagamente il Potala Palace. La prossima tappa del mio viaggio e' Zhengzhou, Cina centro-orientale. Dal Tibet sono 40 ore di treno. Ieri pomeriggio ho fatto provviste e parto equipaggiato con: bottiglione da 1,5 litri di acqua, 1 bevanda al latte multivitaminica, 2 bricks di the freddo, 1 brick di latte al cioccolato, the e caffe' istantaneo, 2 confezioni di biscotti al cioccolato, 2 plum cake, 2 snickers e 4 zuppe di instant noodles. Dovrebbe bastare...

Il treno parte puntuale alle 10 di mattina, con capolinea Shanghai; e' decisamente affollato: io sono in una cuccetta da 6 con altri 5 compagni di viaggio cinesi.

Le prime 6 ore sono spettacolari. Si percorre un'ampia vallata a oltre 4000m; alla nostra sinistra costeggiamo ad un certo punto una montagna innevata alta oltre 7000m. I villaggi lungo le rotaie sono piccoli e molto distanti l'uno dall'altro. Ogni tanto si scorge una mandria di yak al pascolo su campi gialli e spelacchiati. Tutti i viaggiatori, me compreso, hanno la faccia attaccata al finestrino. Impossibile perdersi anche un solo minuto di questo spettacolo. Man mano che il treno sale di quota, l'erba lascia spazio alla neve. Stiamo percorrendo un vasto, immenso, altopiano bianco; in lontanza si scorge la sagoma frastagliata di una catena montuosa. E' incredibile come a quasi 5000m di quota ci possa essere uno spazio pianeggiante di tale ampiezza; uno si aspetterebbe di essere sulla punta di una montagna...




I vagoni del treno sono equipaggiati con bombole di ossigeno, in caso qualche passeggero mostri i segni del mal di montagna e abbia difficolta' respiratorie.

Mentre all'interno, lungo i corridoi, si avverte chiaramente lo slurp slurp delle zuppe istantanee, all'esterno il Tibet da il meglio di se. Immagini che si imprimono indelebilmente sulle retine dei viaggiatori.

Una voce registrata racconta le fasi della costruzione della ferrovia e, in inglese, ricorda i primati di questo prodigio: 5100m, il punto piu' alto al mondo raggiunto da un treno; 5000m, la galleria ferroviaria piu' alta. Eccezionale, la Cina stupisce sempre. Quando la narrazione si interrompe parte sempre la stessa cassetta musicale: cover, in cinese, di canzoni inglesi; riconosco brani di Pink, Rod Stewart e anche il ritornello di Fra Martino Campanaro!

Al termine della prima nottata il treno ha ormai lasciato il Tibet e si appresta a percorrere le pianure della Cina Centrale. Nottetempo siamo scesi bruscamente di quota e ora saremo intorno a 2000m. I paesaggi si fanno meno interessanti e passo tutto il tempo a leggere o a sonnecchiare, disteso sul letto. Esaurisco le provviste e per cena mi affido a quanto propone il vagone ristorante: riso in bianco con manzo e verdure in salsa di soya: non male. Mi faccio poi un caffe' e ritorno a letto a leggere, in attesa di prender sonno. Prima di addormentarmi definitivamente preparo lo zaino in modo da essere pronto per lo sbarco nel cuore della notte. Il treno giunge puntuale a Zhengzhou, alle 2.50

Rene'

domenica 23 dicembre 2007

Sette giorni in Tibet (2)

Quarto giorno

Dopo Shigatse, copriamo un altro breve tratto in macchina e arriviamo a Gyatse, piccola cittadina sulla via verso Lhasa. Qui visitiamo un monastero con una stupa molto interessante e soprattutto molto grande. La stupa e' un edificio sacro buddista che solitamente contiene le spoglie di monaci famosi e venerati (es. i Lama).
La stupa di Gyatse e' un impressionante conoide di 9 piani, interamente dipinto di candido bianco con in cima un pinnacolo dorato. All'interno della stupa, su ogni piano, si trovano delle stanze dove sono state posizionate statue di divinita'. Saliamo fino all' ultimo piano, con il fiatone, per godere di una ottima vista del paese e dell'ampia vallata. Dall'alto osserviamo i fedeli percorrere in senso orario il perimetro della stupa.
In serata, altra mano di poker che stavolta va ad una novizia danese che dice di giocare per la prima volta (ci crediamo?). Io perdo l'intera posta giocata.

Quinto giorno

E' la prima volta che ci svegliamo veramente presto. Alle 7.15 siamo gia' in strada per percorrere il tratto finale, destinazione Lhasa. C'e' da scollinare un passo a 4700m. Giunti alla sommita' fa ancora troppo freddo (siamo sicuramente sotto zero) e nessuno si azzarda a restare fuori dall' auto per piu' di 2 minuti. Giusto il tempo di scattare la foto di rito!
Lo stop successivo e' piu' piacevole e avviene verso le 11 di mattina. Siamo in cima ad un colle e sotto di noi la vista spazia su un lago di un colore blu incredibile. Intorno a noi si crea un gruppetto di venditori di souvenir tibetani che tentano invano di appiopparci una serie di ninnoli. Io e Matt, per scaldarci, saltiamo a perdifiato attorno ai tibetani esterefatti e immobili.
Ed eccoci a Lhasa, la mitica e tanto desiderata capitale del Tibet. Per molti del nostro gruppo e' un piccolo shock e forse c'e' anche un pizzico di delusione: la citta' piu' sacra dei tibetani e' infatti solamente un poco differente da quella che puo' essere una normale cittadina cinese nell'anno 2007. Intorno al Barkhor, il tempio piu' importante di Lhasa, resiste ancora un bel nucleo di case storiche, visibilmente minacciato dalla morsa dei lucenti e piastrellati palazzi multipiano cinesi, dai ristoranti per turisti, negozi di souvenir, boutique e fast foods. E' il vorticoso progresso in atto in Cina che si riflette anche quassu', nel remoto Tibet.
Oggi abbiamo il pomeriggio libero e molti ne approfittano per visitare il centro storico. Io sono in preda di un pesante attacco di cagarella, diagnosticato, insieme a David, come Giardia. Sintomi? Frequenti rutti al sapore di uovo marcio, eccesso di gas, stomaco e intestino gorgogliante. Prendo una dose di pillole e passo il pomeriggio in camera a leggere, sonnecchiare e guardare la tv. In serata sto gia' meglio, ma non mi avventuro in pericolose sperimentazioni gastronomiche.

Sesto giorno

Sto ottimamente: il pillolone deve avere fatto il suo dovere e ucciso il battere intruso. Non bene, invece, sta la ragazza danese che, dal primo giorno del viaggio, si porta dietro i sintomi del mal di montagna. La situazione e' peggiorata e si rende necessario il ricovero all' ospedale militare di Lhasa. L'unico rimedio, per lei, e' quello di scendere di quota. Cosa che verra' fatta, dopo due giorni, con un volo aereo verso la Cina.
Dopo una mattinata in liberta' ci ritroviamo con la nostra guida di fronte al Barkhor, il tempio buddista piu' importante di Lhasa. Rispetto agli altri templi visitati in Tibet questo, seppur architettonicamente molto bello, e' "freddo", senza vita. Non incontriamo o vediamo monaci che pregano o cantano. Quei pochi che avvistiamo pare abbiano piu' una funzione di controllo del flusso turistico e sono impegnati a smanettare sul cellulare. La nostra guida ci dice che questi monaci sono finti, spie del governo cinese! "All' interno del tempio" - continua - "e' assolutamente vietato parlare di politica" e con una mano ci indica una telecamera a circuito chiuso. Per chi si oppone alle politiche del governo di Pechino il passo verso la detenzione e' molto breve. Per noi e' comunque difficile capire, nel corso di questa breve visita in Tibet, quanto sia effettivamente stringente la morsa di Pechino e come questa si esplichi sui tibetani, la loro cultura e la loro terra.

Settimo giorno

In mattinata e' prevista la visita al Potala Palace, ex-residenza dell'ultimo Dalai Lama. E' certamente l'highlight del nostro Tibet trip. Il palazzo troneggia in cima ad una collina ed e' veramente maestoso; al suo interno si possono contare, tra sale e stanze, fino a 1000 camere.
Terminata la salita a zigo-zago verso l'ingresso e, ripreso fiato, ci apprestiamo a esplorare la parte aperta al pubblico (meno del 10% dell' intera struttura). Visitiamo, una dopo l'altra, stanze grandiose, con bellissime statue dorate, mobili finemente intarsiati e enormi stupe che contengono i resti di alcuni dei piu' famosi Lama tibetani. Il flusso di fedeli e' incessante. In ogni stanza i pellegrini lasciano una donazione di qualche centesimo e alimentano le lampade a olio con il burro di yak che si sono portati appresso per la visita. Questo colorato e folkloristico fiume di tibetani ci accompagna fino all' uscita e poi ai piedi della collina, dove inizia il percorso delle ruote di preghiera, che cinge tutto il perimetro del Potala. L'unica nota stonata di questa mattinata molto intensa e affascinante e il monumento che i cinesi hanno eretto nella piazza antistante al Potala, un gigantesco pisellone grigio di cemento.



A cena e' tempo di saluti e di scambio di email. Meta' del gruppo tornera' domani in aereo a Kathmandu. Gli altri (tra i quali ci sono io) sono ora di liberi di muoversi in terra tibetana, chi verso la Cina, chi verso il Nepal. Per chiudere al meglio il tour decidamo di andare in una discoteca tibetana che si rivela essere un teatro sul quale palcoscenico si alternano cantanti e gruppi di ballerini. Le performace migliori vengono premiate dal pubblico con lancio di pezzi di stoffa (lunghe sciarpe bianche) sul palco. Il pubblico in sala e' disposto intorno a rotondi tavoli ricoperti di lattine di birra. Anche noi ci adeguiamo, prendendo comodamente posto, per assistere a questo particolare spettacolo.

Chiusura

Terminato il tour resto ancora per due giorni interi in Tibet. Continua a fare freddo. Niente di cui meravigliarsi: dopotutto e' inverno e mi trovo a 3600m di quota. L'unico momento in cui ho veramente caldo e' quando sono sotto le coperte e aziono il riscaldamento naturale (avete capito...). Altrimenti sono sempre costretto ad essere coperto fin sopra i capelli, anche all'interno dei ristoranti. Non mi ricordo un locale, in questi sette giorni, che abbia avuto un riscaldamento! Di notte la temperatura scende sotto zero e penso di avere raggiunto il record in quanto a strati di vestiti: canottiera, t-shirt, maglietta a maniche lunghe in pile, camicia, maglione di lana, giubbotto di pile e giacca a vento: ben 7 strati!
Una mattina ci rechiamo con i resti del gruppo ad un monastero buddista tra i monti nei pressi di Lhasa, a 4600m. Partenza in pullman fissata alle 6.30. Il viaggio e' tremendo. Giunti in piazza alle 6.15 scopriamo che il bus e' gia' pieno di pellegrini tibetani. Siamo quindi costretti a sederci su mini-sgabelli di plastica nel corridoio del pullman. Non c'e' il riscaldamento e le gambe e i piedi mi si stanno letteralmente ghiacciando. Dopo un'ora e mezza di sofferenza arriviamo al monastero; sta albeggiando e intorno a noi le montagne sono ricoperte di un leggero strato di neve. Dobbiamo assolutamente scaldarci e ci rintaniamo quindi in un piccolo ristorante dove, grazie alla presenza di altri corpi, si e' creato un poco di calore. I tibetani ci offrono il loro the' che consiste in the', appunto, sale e burro di yak. Imbevibile. Per correttezza cerco di buttar giu' mezza tazza, rischiando di vomitare. Poi, visto che non si trova altro, passo a una piccantissima zuppa istantanea che mi scalda piacevolmente le pareti di stomaco e gola. Meglio passare all' attivita' fisica. Decidiamo di scalare il monte nei pressi del monastero. Una lunga e sfiancante passeggiata per coprire un dislivello di alcune centinaia di metri. Il fiato manca a tutti e ben presto l'ordinata fila si disunisce, come in un tappone di montagna al Giro d'Italia. Giunti in vetta, in un tripudio di bandierine colorate, siamo ripagati dalla purezza dei paesaggi tibetani: netti contrasti e un cielo di un blu incredibile.
Saluto definitivamente cio' che rimane del gruppo; loro hanno infatti deciso di fermarsi per una notte alla guesthouse del monastero mentre io, biglietto del treno gia' in mano (partenza fissata domani mattina alle 10), sono costretto a scendere e tornare a Lhasa. Non che mi dispiaccia; di passare una notte in una gelida stanza a 4600m di quota non ne avevo proprio voglia!
Rene'

venerdì 21 dicembre 2007

Sette giorni in Tibet (1)

Il 27 novembre e' il giorno della partenza per il Tibet. Per entrare in Cina dal Nepal e' necessario fare parte di un viaggio organizzato da un tour operator e quindi essere dotati di "group visa". Avevo nel passaporto gia' un visto turistico individuale per la Cina che pero' l'ambasciata cinese a Kathmandu ha provveduto ad annullare con un bello stampo rosso (cancelled!). Ora il visto - un foglio A4 - dice che il mio gruppo e' composto da una persona: Rene' van Olst. Dannata burocrazia!
Ogni martedi e sabato parte un gruppo di viaggiatori dal Nepal, Kathmandu, alla volta del Tibet. A seconda della stagione i numeri variano. In alta (settembre-ottobre), ad esempio, si sono toccate punte di 100 persone! Il nostro gruppo, per fortuna, e' composto solo da 21 persone; viaggeremo tutti insieme in un convoglio di jeep per 7 giorni, destinazione Lhasa, la capitale tibetana. Il gruppo e' composto da:
- me stesso
- David, avvocato americano di origine ebree
- Matthew, giovane australiano in dubbio sul suo futuro universitario
- Surendra, indiano di mezza eta' residente a Londra
- Luis, giovane ingegnere tedesco trapiantato in Malesia
- Edoardo, studente universitario peruviano
- due ragazze inglesi di provincia, dall' accento incomprensibile (infatti non ricordo i loro nomi)
- caratteristica comune anche a Heather, irlandese del Nord
- Murray, infermiere scozzese
- Philippe, esperto di telecomunicazioni francese, giramondo
- Sophie, sofisticata francese di colore
- Marie, impiegata nella fredda Trondheim, Norvegia
- un gruppo di sei giovani danesi appena usciti dalla scuola superiore
- due universitarie danesi reduci da uno stage in una NGO in Bangladesh

Primo giorno

Partenza da Kathmandu alle 7 di mattina e viaggio in minibus fino al confine dove arriviamo verso mezzogiorno, ora nepalese. Sbrighiamo senza problemi le formalita' in dogana e aggiorniamo le lancette sull'ora di Pechino, +2.15 ore. Questa volta la mia Lonely Planet China, edizione di seconda mano acquistata a Kathmandu, scassatissima, unta e reduce da un probabile tuffo in una sostanza liquida, passa la frontiera indenne. Gli zaini non sono stati aperti per l'ispezione alla ricerca di letteratura proibita!
Sul lato cinese pranziamo e riceviamo le informazioni relative al tour dalla nostra guida tibetana. La strada fino a Naylam, dove prevediamo di fermarci per la notte, e' interrotta causa lavori in corso e dobbiamo aspettare al posto di frontiera fino alle 22, ora di riapertura. Azz! Sono quasi 7 ore a partire da adesso.
Interminabile attesa in auto. Le presentazioni di rito e i discorsi vanno scemando e occore ammazzare il tempo ascoltando l'ipod o, meglio, dormendo.
Alle 21.30 riusciamo a ripartire e in 2 ore scarse raggiungiamo l'albergo per la notte. La strada e' tutta buche e scossoni, sterrata. Si sobbalza. Una ragazza danese, nell'auto-centrifuga, inizia a vomitare.
Si temeva una sistemazione spartana ma l'albergo non e' male; meglio, per intenderci, della mia guesthouse a Kathmandu. E' una ghiacciaia ma il materasso e' egregio e ci sono molte coperte. Naylam e' a 3900m. In un solo giorno abbiamo fatto un salto di 2500m.

Secondo giorno

Dalla jeep ammiriamo estasiati la natura tibetana. Il paesaggio e' radicalmente mutato, dalle verdi, umide, ricoperte di vegetazione, colline nepalesi, siamo passati a montagne scarne, brulle e a colori dalle tonalita' ocra. Sembra di percorrere un deserto d'alta quota. Ancora prima di mezzogiorno solchiamo un passo a 5200m. Ci fermiamo alcuni minuti sotto una struttura metallica a forma di arco ricoperta interamente di bandiere di preghiera (prayer flags) tibetane. Non molto lontano si erge maestosa la sagoma innevata dello Shishapanga (un ottomila al confine tra Nepal e Cina).
Pranziamo a Tingri, dove una strada biforca alla nostra destra e porta diretto al campo base dell' Everest. Il Chomolungma (cosi si chiama in tibetano la vetta piu' alta del mondo) spicca lontano, lungo la linea dell'orizzonte, rendendo pero' chiaramente visibile la sua altitudine.Seduti intorno a una stufa in una tipica abitazione tibetana consumiamo il pranzo. Ognuno di noi, in un modo o nell' altro, accusa i sintomi dell' AMS (altitude mountain sickness). Io ho un sottile e persistente mal di testa, una linea dolorosa proprio sopra le tempie.
A meta' pomeriggio arriviamo a Lhatse (4100m), secondo stop per la notte. Questa volta le camere, disposte intorno ad un cortile, sono "essenziali": i letti sono brande che scricchiolano pericolosamente sotto il peso dei corpi. Il bagno? Una odorosa latrina: occhio a non cascarci dentro di notte! La toilette si trova in un altro cortile, aperto su un lato e disordinato magazzino a cielo aperto della guesthouse, dove i muri sono ricoperti di cacche di yak, appicicate li ad essiccare, prima di diventare combustibile per la stufa.
Mentre ci scaldiamo intorno ad una tazza di the, in attesa di cenare, Heather irrompe nella stanza dicendo di avere trovato uno snack bar dove servono hamburger. In men che non si dica mette insieme un piccolo esercito di affamati. Io declino, riservandomi il diritto di fare una ispezione piu' tardi.
Giunto sul posto, trovo i ragazzi seduti intorno ad un tavolo intenti a sgranocchiare patatine. Stanno ancora attendendo i burgers. Il primo tocca ad una ragazza danese: e' un egg burger; semplicemente una frittata all'interno di un soffice panino. Addenta. Il suo sorriso si smorza subito. "Il pane e' dolce!" esclama. Intanto arriva il secondo panino, il chicken burger di Philippe. Lo stupore e la risata e' grande. Ragazzi, il panino e' un bombolone ricoperto di glassa al cioccolato, che viene subito immortalato dai flash delle nostre macchine fotografiche, tra gli sguardi preoccupati delle due cuoche. La vera star della serata!
Io decido che ho visto abbastanza e trascino Matt fuori dal locale. Quello che sta accadendo e' chiaro: le ragazze hanno finito il pane e, pur di accontentarci (e per non perdere 8 preziosi clienti!), sono passate all'utilizzo di panini dolci.
Insieme a Matt trovo ben presto un minuscolo ristorante dove consumiamo una decente zuppa di tagliolini, verdure e carne. Il brodo bollente ci da un po di calore per affrontare la notte. La stanza infatti e' gelida e la finestra, che non si chiude bene, lascia penetrare spifferi d'aria. Srotolo il sacco a pelo, necessario, e mi infilo sotto le coperte.

Terzo giorno

La notte e' passata bene, nonostante mi sia dovuto alzare due volte per correre al gabinetto (sto bevendo molta acqua per contrastare il mal di montagna). Lo spostamento in jeep, oggi, e' molto breve: solo 90km, contro i 200 e piu' coperti in ognuno dei primi due giorni. Ancor prima di mezzogiorno arriviamo a Shigatse. E' la prima citta' dove faremo del turismo.
Nel pomeriggio infatti esploriamo il grande monastero buddista che rende famosa questa citta'. Molto bello. In una delle cappelle c'e' un Buddha dorata impressionante, alto piu' di 20m. Gli edifici del monastero sono disposti a piu' livelli, sui fianchi di una montagna. Il cuore batte velocemente e il respiro e' affannoso quando la strada inizia a salire e dobbiamo percorrere una scalinata. Siamo ancora intorno ai 4100m di quota!
Shigatse conserva ancora un piccolo nucleo di abitazioni tibetane, sul lato orientale del grande monastero, mentre tutto il resto della cittadina si sta rapidamente cinesizzando (per numero di abitanti, Shigatse e' la seconda citta' dopo Lhasa). Ben presto la ferrovia, che da novembre 2006 collega Lhasa alla Cina, arrivera' fino a Shigatse. Le case tibetane, dai tetti piatti, hanno una forma quasi trapezoidale e sono interamente dipinte di bianco, con fasce di colore nero intorno alle finestre. Richiamano molto gli edifice del monastero dove, oltre al bianco, viene utilizzato anche l'amaranto, il marrone e l'oro, a seconda dell'importanza degli edifici.
In serata si crea il gruppo di giocatori di poker. La camera "d'azzardo" e' quella di Heather e Murray, che vengono spennati da Matt a Texas Hold'em (io limito i danni).
Anche questo albergo e' sprovvisto di riscaldamento ma almeno c'e' l'acqua calda e per molti e tempo della prima doccia calda.
Rene'

mercoledì 19 dicembre 2007

Nepal

Arrivati a Darjeeling e raggiunto quindi il nord dell'India si puo' dire che il Nepal e' alle porte. E' a portata di mano e visibile dalle cime di queste colline bengalesi.
Il passaggio di frontiera tra il Nepal e l'India e' divertente. La dogana e' poco piu' di una casupola con all'interno due ufficiali indiani che annotano, a penna, su dei registri il passaggio di tutte le persone. Sono letteralmente sommersi dalla carta! Sul lato nepalese l'atmosfera e' molto rilassata e il doganiere si stava quasi dimenticando di apporre il visto sul mio passaporto.
Sincronizzazione dell'orologio: il Nepal e' 5 ore e 45 minuti piu' avanti dell' Italia. E' legittimo chiedersi il motivo di questi 45 minuti di sfasamento; semplice: visto che l'India e' avanti di 5 ore e mezzo, il Nepal ritiene necessario evidenziare la propria indipendenza dall'India spostando in avanti le lancette di 15 minuti!
Passo una notte al confine in quanto devo attendere il primo bus della mattina successiva per Kathmandu: partenza fissata alle 4.30!
Il viaggio si rivela lungo... molto lungo... ben 17 ore! A dir tanto avremo coperto una distanza di 500km.
Procedo nella narrazione abbastanza in stile libero, soffermandomi su alcuni episodi. In Nepal ho passato 13 giorni e ho visitato di fatto solo due citta': Kathmandu - la capitale - e Pokhara.


Tutte le strade del Nepal portano a Kathmandu

Purtroppo si! Immaginate tutto il traffico su ruota di una nazione (tra auto, pullman e camion) che, proveniente da ogni angolo del Paese, si riversa su una unica strada verso la capitale. Un disastro! Facciamo un esempio: lo spostamento in pullman da Pokhara a Kathmandu dovrebbe prendere tra le 6, massimo 7, ore. Ci ho messo 12 ore, di cui 6 solo per coprire gli ultimi 20 km prima di Kathmandu. La colonna di mezzi - un lungo serpentone snodato lungo i fianchi di una collina - era assolutamente immobile, modello "una ordinaria giornata di follia". Un vero stillicidio. La noia mortale rinchiusa in una gabbia di metallo. L'esasperazione, poi, non fa che complicare le cose: ogni tanto sulla corsia opposta il traffico era assente; una occasione colta al volo dal "genio nepalese" che inizia a percorrere la corsia libera fino a che non incontra un veicolo proveniente in senso contrario. Il risultato: traffico bloccato e una serie infinita di manovre per trovare lo spazio necessario per rientrare nel senso di marcia corretto (ovviamente sto parlando di decine di veicoli che stanno cercando di saltare la coda). Per sbloccare il mega ingorgo ci sarebbe voluto l'intervento di un esercito... di bulldozer. Il Nepal quindi, da un punto di vista "trasporti" non rivela il suo lato migliore.

Geografia

Il Nepal e' un Paese lungo e stretto. Immaginate, disposte sul lato piu' lungo del rettangolo, 3 fasce parallele di terreno: pianura (sud); collina (centro) e montagna (nord). Le strade ci sono in pianura e in collina mentre in montagna esistono solo i sentieri e tutto il traffico (umano e merci) avviene a piedi e a forza di braccia (e in alcuni casi con l'aereo). Non a caso il Nepal e' il Paese del trekking! Tutto il nord e' caratterizzato dall'imponente Himalaya: i monti piu' alti del mondo si trovano qui. Montagne che evocano miti, leggende, sofferenze: come la storia della conquista dell'Everest. Vedere al museo le attrezzature utilizzate per scalare negli anni Trenta mette i brividi.

A spasso per la valle di Kathmandu

In soli 13 giorni di Nepal non ho potuto fare alcun trekking. Mi sono limitato ad esplorare il Nepal storico e culturale, in particolare nella incantevole vallata di Kathmandu, cosi ricca di testimonianze del passato. Passeggiare per una cittadina nepalese risveglia i propri istinti da esploratore. Ci sono templi, edifici sacri e cappelle votive (l'equivalente delle nostre "madonnine") a bizzeffe. La mattina presto, per le strade, si sentono le campanelline di chi si reca al tempio per pregare e portare le offerte. I centri storici sono labirintici: viette strette, case che quasi si toccano e talvolta piccole gallerie che terminano in una piazza. Le citta' si sviluppano intorno e a partire dalla Durbar Square, la piazza principale, un tempo sede dei regnanti e dell'amministrazione cittadina. Gli edifici di queste piazze hanno strutture piramidali, a gradoni, e sono sormontati da tetti di legno, anche essi a forma di piramide, finemente intagliati e decorati.
Il calendario nepalese e' pieno di feste e ricorrenze sacre. Talvolta scorre anche sangue, essendo le offerte di animali (pecore e vacche) ancora abbastanza comuni. Raffaela cerca di illuminarmi sui molti lati oscuri della cultura nepalese. E' una amica di vecchia data (non la vedo da 10 anni!) che lavora da quasi un anno a Kathmandu. Una sera andiamo ad un concerto di musica tradizionale nepalese organizzato da alcuni suoi amici nei pressi della capitale. La piazza del paese e' gremita di persone allegre e sorridenti, sedute a gambe incrociate, gomito a gomito. La musica e' interessante: etnic-folk con molto tamburo e strumenti a corde. Una esperienza autentica che si chiude con la cena insieme al gruppo, tutti seduti per terra in una stanza a mangiare riso, lenticchie e curry di verdure, con le mani! Si, qui si fa cosi. Sulle prime ero visibilmente in difficolta', polpastrello ustionato e sugo che cola lungo le mani, poi mi sono impratichito e ho iniziato a formare palline di riso e a usare la mano come una piccola vanga, con il pollice a spingere il cibo in bocca.

La Kathmandu di oggi

Dove sono i fricchettoni? Kathmandu non e' piu' la loro capitale. Li ho cercati anche nel loro ex-quartiere dove una strada si chiama pure Freak Street. Spariti. La Kathmandu del 2007 e' il regno dei trekkers e di chi e' in cerca di brividi. Il centro d'azione si e' tutto concentrato nella zona di Thamel, il quartier generale dei turisti. Quando ci entri abbandoni il Nepal tradizionale e ti trovi circondato da agenzie viaggi, negozi di abbigliamento (finto) da montagna, souvenir, supermercati con alimentari importati da tutto il mondo, internet point, pubs e ristoranti (cari) per tutti i gusti. Come in India, mi tocca fare lo slalom tra gente che mi vuole appioppare qualcosa. La saturazione arriva presto; dopo 3 giorni al massimo. Purtroppo non c'e' scelta: gli alloggi economici sono qui e anche io mi adeguo ai riti del quartiere. Colazione bacon & eggs; sightseeing; nel pomeriggio ritorno alla base, internet, doccia e poi cena: indiano, cinese, italiano, israeliano, steakhouse o nepalese? Scegliete voi, io ho gia' dato. Dico solo che la pizza era accettabile (pasta poco salata ma va bene cosi!).
A Thamel girano facce conosciute. Qui incontro Ben e Sam gia' visti in Pakistan; sono entrambi in partenza per Inghilterra e Australia. Ben prevede poi di tornare e di stabilirsi a Kathmandu per aprire l'ennesima... agenzia viaggi! Anche se nella vita ha fatto quasi sempre il camionista. Recentemente ha lavorato anche in Iraq. Un tipo tosto.


Incantevole Pokhara

Il turista intrepido, quindi, dopo essersi rifocillato di cibo e avere comprato l'attrezzatura adatta nei negozi di Thamel, si sposta a Pokhara dove puo' liberare la sua voglia di avventura incamminadosi lungo il circuito intorno all'Annapurna (18 giorni); volando in parapendio o con l'ultraleggero; sfidando le rapide di un fiume con un gommone; buttandosi da un ponte con l'elastico; oppure facendo torrentismo. Io inizio affittando una mountain bike per girare in tranquillita' tra le vie di Pokhara poi, il giorno successivo, passo allo scooter causa pigriza e sedere dolorante. Meglio cosi. Con il motore si coprono piu' facilmente i 600m di dislivello per raggiungere Sarangkot, sopra Pokhara, da dove si puo' godere di un'eccezionale panorama sul massiccio dell'Annapurna (8000 e poco piu' metri). Peccato per le nuvole che hanno nascosto parzialmente i monti. Ai miei piedi scorgo il piccolo lago sulle cui sponde sorge Pokhara, incastonato tra verdi colline e campi coltivati: mi sembra di essere in Svizzera!
Una sera mi metto in cerca di un ristorante nepalese economico. Cosa non facile in quanto sul lungo lago di Pokhara vige la legge del ristorante spenna-turista. Scorgo un cartello a bordo strada che pubblicizza momo (ravioli tibetani) a prezzi da saldo. Il ristorante si rivela una stanza che da sul cortile di un piccolo centro commerciale. La stanza e'grande a sufficienza per occupare la cucina e i clienti vengono fatti accomodare su un lungo tavolo di legno all'esterno del locale! C'e' gia' un gruppo di viaggiatori che sta mangiando in una atmosfera comunitaria. Tra di loro scorgo Johannes, uno dei ciclisti che avevo incontrato in Kazakistan nel corso delle mie prime due settimane di viaggio. Carramba', come e' piccolo il mondo! Ha appena finito di girare il Tibet in bici e si appresta a pedalare in India. A partire dal Kazakistan le nostre strade si sono divise per tornare ad incrociarsi nuovamente in Nepal. Ora io vado verso nord (Tibet) mentre lui scende a sud. Un incontro che val bene qualche giro di birra!

Un anticipo di Tibet

Tornato a Kathmandu compro l'attrezzatura minima per affrontare il temibile inverno tibetano: guanti, cappello, magliette in pile, calzamaglia e una sciarpa di lana di yak. Sull'altopiano mi attendono infatti altezze superiori ai 5000m. Ho anche occasione di vedere una anteprima di cultura tibetana nel corso delle mie visite al Monkey Temple e alla Stupa di Boudnath (entrambe a Kathmandu). Soprattutto a Boudnath vivono molti esuli tibetani e altrettanti giungono in pellegrinaggio da tutto il Nepal per percorrere, in senso rigorosamente orario, la circonferenza esterna della enorme Stupa, snocciolando grossi rosari in legno. E' questa l'ultima immagine che conservo del Nepal, un Paese di persone sorridenti e allegre, gente molto friendly che mi ha permesso un soggiorno decisamente piu' rilassato rispetto all'India!
Rene'


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Ho caricato le foto del Nepal (link Flickr) e nuovi video

lunedì 10 dicembre 2007

Il rito del the

Altre 13 o 16 ore, ora non ricordo, di treno piu' un trasferimento di 3 ore rannichiato, schiacciato, in una jeep con altre 10 persone, su ripide strade di montagna e mi ritrovo a Darjeeling, lussureggiante resort dal sapore antico, un posto che gli inglesi, un tempo, chiamavano Hill Station. Darjeeling torreggia in cima ad una delle tante colline che caratterizzano la provincia indiana del West Bengal: verdi pendici, valli, piantagioni di the. Qui si produce quello che viene chiamato lo champagne dei the'; Darjeeling te lo ricorda ad ogni angolo: le case vittoriane in legno, i negozi e le botteghe, le sale da the. Qui si pratica ancora il rito, molto british, dell' afternoon tea, un trionfo di pasticceria, piccoli panini imbottiti e tazze fumanti. Percorrendo le ripide vie della cittadina sembra di ritornare a quel passato coloniale e sfarzoso che fu. Basta chiudere gli occhi e aprire i propri sensi ai profumi della vallata e come d'incanto ti ritrovi a passeggiare accanto ad una dama e ti senti come il piccolo Lord, in vacanza estiva in India. Finalmente percorro strade senza il rischio di essere investito da un rickshaw o caricato da un gruppo di vacche. Non ci sono cacche o cumuli di rifiuti; gli assordanti clacson danno tregua; nessuno mi insegue per tirarmi in un negozio o in un ristorante. Che bello! In giro i visi dai tratti tibetani o nepalesi superano di gran lunga quelli indiani, rappresentati solo dai turisti bengalesi imbaccuccati di lana fin sopra le orecchie. Siamo a oltre 2000m. All'ombra e soprattutto di notte fa freddo; molto freddo. Il passaggio dall'estate ad un autunno inoltrato e' stato drastico; il mio fisico lo avverte. Per oltre 8 settimane ho sudato e talvolta boccheggiato in quella che per me e' stata una lunga estate. Pantaloncini corti e t-shirt vengono ora sostituiti da jeans, camicia e maglione di lana. Brrrrr. Che shock passare da 30 gradi a poco piu' di 5 nel giro di 24 ore. Per fortuna ho un sacco a pelo nel quale raggomitolarmi di notte e i vestiti caldi non mi mancano.
Passo le giornate a fare lunghe passeggiate, allo zoo (?!), al giardino botanico e tra le verdi piantagioni di the mentre maestoso, lungo la linea dell'orizzonte, troneggia il Kanchengunga, la terza montagna piu' alta del mondo (8586m). Per ammirarla ancora meglio, una mattina mi piego al rito dell'alba vista da Tiger Hill (2600m) e mi sveglio alle 4 di mattina per imbarcarmi su un taxi insiemi ad altri viaggiatori alle 4.30. Vi sembrera' strano ma non sono l'unico. Tiger Hill e il suo rifugio-osservatorio sono, alle 5.30, stipati all'inverosimile. Il sole sorge da li a poco, alle 6, ed e' accompagnato da gridolini e battiti di mani del pubblico indiano. I primo raggi del sole baciano i pendii di monti innevati, colorandoli di rosa; si sgomita per ottenere lo scatto migliore. In lontananza si scorge pure la sagoma dell' Everest, non piu' grande della bianca e piccola cresta di un'onda che si infrange all'orizzonte. E poi? Sorto il sole, dopo 10 minuti, e' il fuggi fuggi generale del pubblico indiano tra gli sguardi esterefatti dei pochi turisti stranieri. Ma come? Gia' ce ne dobbiamo andare? Ora che il sole inizia a scaldare i nostri nasi e scioglie le guance gelate? Eh si. Dietrofront. Alle 6.30 sono di nuovo in jeep, si ritorna a Darjeeling. Colazione alle 7 e poi di nuovo a letto per qualche ora.
Qui tra verdi colline si conclude la mia avventura indiana, un viaggio lungo 6 settimane tra spiritualita', confusione, resse, vacche e tigri. Una delle ultime istantanee mi ritrae nel tardo pomeriggio al Glenary's, intento a scaldarmi le mani intorno ad una bollente tazza di the. Si chiude con l'India e anche con il mio fatto di essere vegetariano. Insieme a Jessica (viaggiatrice australiana incontrata la prima volta in Pakistan e poi piu' volte in India) consumo un succoso pollo marinato allo joghurt in salsa al curry. Delizioso, James!
Rene'

lunedì 3 dicembre 2007

Buddismo e treni

Varanasi e Gaya dovrebbero essere a circa 4 ore di treno l'una dall'altra. Dico, dovrebbero...
Considerata la distanza relativamente breve da coprire, opto per un biglietto di 2 classe, la piu' economica e anche la piu' affollata. Come in ogni stazione ferroviaria indiana anche a Varanasi c'e' una gran ressa di persone: chi a sgomitare per un biglietto; chi intento a capire se e dove arrivera' il proprio treno; chi stravaccato per terra a leggere un giornale o, nella maggior parte dei casi, a dormire. Nell'atrio centrale bisogna zig-zagare tra i viaggiatori distesi per terra, facendo attenzione a non calpestare un braccio o a calciare una testa. L'altoparlante enumera incessantemente, in una sorta di cantilena, i treni in arrivo e in partenza. Per sfuggire alla calca e alla confusione la cosa migliore da fare e buttarsi nel salone ristorante, una oasi di pace libera da mendicanti, venditori di the, tassisti e assillamenti vari.
Il treno per Gaya entra in stazione alle 20.30, con circa 3 ore di ritardo. Niente di straordinario: il ritardo medio dei treni che ho preso in India e' stato di 2 ore e mezza (con una punta massima di 7 ore). Mi faccio largo tra un fiume di gente in attesa lungo il binario e mi porto verso la testa del treno. E' qui che vengono sempre collocati due vagoni di 2nda classe. Al contrario delle altre quattro classi (prima, seconda, terza ad aria condizionata e cuccetta) la "seconda" non si puo' prenotare e, come gia' detto, e' la piu' economica. Lascio prima salire gli indiani che si sono accalcati all'entrata del vagone. Chi deve scendere ha difficolta' e deve allontare a spintoni la massa che preme per salire. Terminato il pericoloso trambusto salgo anche io e cerco un angolo tranquillo. Missione difficile: tutti i posti a sedere sono gia' occupati. Trovo un poco di spazio nel corridorio, al centro del vagone; riesco giusto a togliermi lo zaino dalle spalle, appoggiarlo in terra e sedermici sopra. Tutto sommato non e' una sistemazione malvagia non fosse per il continuo via vai di venditori di the che sfiorano pericolosamente, con le loro teiere incandescenti, le mie spalle. Dannazione! Non c'e' posto per una mosca e loro si ostinano a volere passare.
Il treno continua ad accumulare ritardo e le 4 ore previste di viaggio si allungano verso le 6 ore. E' ormai notte fonda e cerco in ogni modo di restare sveglio: non ho idea di cosa potrebbe succedere se per sbaglio mi addormento e distolgo lo sguardo dallo zainetto! Ho gia' letto e riletto il settimanale India Today e non mi resto che scandagliare con lo sguardo i passeggeri pressati nel vagone.
Arrivo a Gaya alle due di notte. Nonostante l'ora c'e' ancora un discreto affollamento sia in stazione che nelle vie adiacenti, dove alcuni ristoranti sono ancora aperti. Mi limito ad attraversare il viale di fronte alla stazione e mi infilo nel primo albergo che mi capita a tiro. Non e' male: c'e' pure la tv in camera e ne approfitto per vedere in diretta il secondo tempo di Besiktas-Liverpool (Champions League!). Accidenti! Apro lo zaino e scopro che la crema solare e' scoppiata e ha impiastricciato tutto il beauty-case: colpa del mio peso quando, sul treno, mi sono seduto sullo zaino. Prima di andare a letto mi tocca pure fissar la zanzariera: sono sotto l'assedio delle sanguinarie!
L'indomani mi faccio una full-immersion di buddismo. Visito Bodhgaya, il luogo dove Siddharta Gautama ha meditato per sei lunghi anni (senza toccar cibo) all'ombra di un albero (Bodhy Tree) prima di diventare Buddha (L'Illuminato). L'albero originario non c'e' piu' ed e' stato rimpiazziato da uno piu' recente, non meno maestoso. Il luogo e' carico di significato. Intorno all'albero sorge un tempio e molte persone, monaci e buddisti d'adozione (stranieri) si fermano qui a meditare. E' molto interessante passeggiare per questa piccolo cittadina perche' si incontrano buddisti di ogni nazionalita' e si ha la possibilita' di visitare i templi che le varie comunita' hanno costruito: cinese, giapponese, burmese, bhutanese, tibetano. Nell'atrio di quest'ultimo e' in corso una danza in maschera al suono di tamburi: molto affascinante. Spendo una mezza giornata a curiosare tra i templi prima di ritornare nella polverosa Gaya. Le malefiche zanzare sono gia' attive di pomeriggio e mettono a dura prova il mio repellente. Decido di non fare nulla e di riposarmi per il resto della giornata. Mi aspettano ancora molte ore di treno prima della prossima tappa.

Rene'

lunedì 26 novembre 2007

In mezzo scorre il fiume

Il Gange, grandioso Gange. Il fiume sacro degli induisti, dove i pellegrini vengono a bagnarsi e a lavare i propri peccati, a morire e a farsi cremare. Sulle sue sponde sorge Varanasi, importante centro spirituale, secondo alcuni la citta' piu' antica al mondo. Senza dubbio e' una citta' che colpisce tutti i sensi e non concede vie di mezzo: o la ami o la odi. Sensazioni contrastanti: e’ bello perdersi e ritrovarsi nelle strettissime stradine del centro storico ma e' snervante zig-zagare tra vacche sacre e caccone molto meno nobili; e’ piacevole attardarsi a bere un the con una famiglia indiana quanto e' stressante dribblare l'ennesimo procacciatore d'affari; oppure assaporare profumate spezie orientali e subito dopo scontrarsi con il tanfo della spazzatura abbandonata a bordo strada.
Una escursione in barca a remi sul placido Gange, prima del sorgere del sole, e' sicuramente un ottimo modo per apprezzare Varanasi. Dalle acque e' possibile scorgere gli abitanti che spuntano dalle viuzze, si riversano sulle sponde del fiume e praticano la preghiera mattutina (puja), con le gambe immerse nell'acqua e la mani che rilasciano fiori e candele galleggianti. Una leggera foschia ricopre ancora la citta', colorandola con magiche e mistiche tonalita' di rosa.
Varanasi e' la citta' degli induisti, della sacralita', dei santoni (baba o guru), dei turisti e di chi ha deciso di rimanerci piu' a lungo: a frequentare un corso di yoga, a studiare hindi o imparare a suonare il tamburo o il sitar. Manuela appartiene all'ultima categoria in quanto cuoca del Karki's Restaurant dove io, fedellissimo della pasta, mi reco ogni sera per uno spaghetto o un piatto di penne. Deliziosi sapori di casa! Ovviamente non sono l'unico al quale manca il "primo piatto". Da Manuela ci si imbatte in un pubblico, italiano, variegato: convertiti alla spiritualita' indiana, new-agers, istruttori e praticanti di yoga, musicisti e fumatori incalliti. Allungando l'orecchio si sente parlare di guru, ashrams, poteri particolari, meditazione trascendentale, esperienze ultrasensoriali, energie positivie, negative, cosmiche, ecc... A me, per il momento, basta il piatto di pasta per rigenerarmi dopo una giornata passata a percorrere su e giu' le sponde del fiume, tra lavatori di panni, barcaioli, pellegrini in preghiera, santoni e cremazioni.
Per alcuni giorni alloggio in una tranquilla e pulita guesthouse, lontana dal trambusto del centro e gestita da una affettuosa coppia di ottantenni! Il marito mi ha preso particolarmente in simpatia e un pomeriggio mi ha raccontato del suo interesse per la storia e in particolare per Napoleone e per Hitler (?!). E' ancora rammaricato per la perdita di Mein Kampf , libro che aveva prestato ad un suo amico e mai ritornato. Snocciola aneddoti: "lo sai che Hitler era impotente?". Curioso. Mi e' poi capitato di vedere Mein Kampf esposto in una edicola alla stazione ferroviaria: letteratura da viaggio all' indiana? Oppure si stanno preparando a governare il mondo?
Il mio tranquillo soggiorno viene pero’ turbato da una serie di improvvisi eventi negativi:
1. faccio i panni al pomeriggio e li stendo sul tetto della casa. Alla sera non sono ancora asciutti e li lascio quindi dove sono. La mattina seguente solo una t-shirt rimane stesa mentre il resto e’ sparso per terra o, peggio, disperso sui tetti delle case circostanti: le scimmie mi hanno rubato le mutande nottetempo! Con il proprietario di casa faccio il giro del vicinato: in un cortile trovo una t-shirt con la manica tutta sfilacciata, mentre su un altro tetto recupero alcune mutande. Tutto sporco e da rilavare!
2. attacco di diarrea post-ingerimento di yoghurt avariato
3. la presenza di un gruppo di toscani, genere rastone-cannaiolo, che indugiano a fumarsi delle grosse pipe proprio sotto la finestra della mia stanza e mentre sto cercando di controllare i crampi allo stomaco (dimenticavo: il tutto alle 2.30 di notte). Risultato: rinuncio al treno che avevo intenzione di prendere alle 5.30 del mattino (non mi reco neanche in stazione). L'indomani, per lo meno, si scusano per il rumore causato e mi offrono un cylumino all'ora di colazione (fumano a ciclo continuo, quasi un lavoro per loro!): "no grazie ragazzi, sto poco bene" e indico lo stomaco. "Ahh, c'hai la caghetta? Hai gia' preso qualcosa?". "Si, ho delle pastiglie" rispondo. "Ah lo so; te c'hai i chimiconi. Non va bene! Prendi queste, ayurvediche e 100% naturali" (loro si che sanno quel che fa bene al corpo!). Ne prendo due e cerco di tirarmi insieme per affrontare il viaggio in treno verso Bodhgaya.
Saluto Varanasi, le sue colorate genti e la pasta di Manuela. Dopo l'induismo e' ora di immergersi nel buddismo.
Rene'

giovedì 22 novembre 2007

Tigre... Tiger Man!

La visita al parco nazionale di Kanha - India centrale - inizia cosi: arrivo puntuale in stazione a Varanasi per prendere il mio treno alle 8 di sera che sul display luminoso viene gia' dato con 7 ore di ritardo... Nell'incredibile tranbusto di ogni stazione ferroviaria indiana trovo aiuto in un simpatico signore, anche lui diretto verso il sud del Paese, che prima mi porta in un ufficio dove il mio biglietto per il treno in ritardo si trasforma, grazie ad un timbro, in un biglietto universale valido su qualsiasi treno e poi mi aiuta a effettuare la prenotazione di una cuccetta su un espresso in arrivo da li a poco. Sbrigate le procedure ci fermiamo un po' a parlare e scopro che lavora per l'esercito ed e' di stanza alle isole Nicobare. Una piacevole chiaccherata in attesa del treno, ognuno seduto sulle rispettive valigie.
L'indomani, arrivato in stazione a Jabalpur, mi reco all'ufficio turistico dove mi aspetta lo zelante sig. Lakampal che deve formalizzare la mia presenza in un lodge all'interno del parco nazionale. La scena e' fantozziana in quanto l'impiegato, purtroppo, ha un problema agli occhi e si atteggia esattamente come il Rag. Filini, in modo giocondo e un po' schizzato e tenendo i fogli di carta a meno di 1cm dal naso!
Da Jabalpur il parco nazionale dista ancora 160km e 6 snervanti e burrascose ore di autobus, il quale, messo a dura prova dal manto stradale, si scassa a meta' percorso: sospensione posteriore destra spezzata e game over. Tutti i passaggeri, me compreso, si imbarcono sul primo pullman di passaggio. Giungo alla meta in piena oscurita', alle 7 di sera, dopo quasi 24 ore di viaggio e crollo ben presto, appena terminato di cenare. La sveglia e' gia' fissata alle 5.15 in modo da entrare al parco con la jeep, per il "safari", verso le 6.
Protetto dalla mia zanzariera dormo sonni tranquilli mentre all'esterno del lodge la giungla, viva nella notte, si riempie di suoni.
Il safari. Quando la jeep si addentra nel parco, la foresta e' ancora avvolta in una umida, fresca e misteriosa foschia. Oltre a me, sul mezzo, ci sono due guide e una coppia di turisti svedesi. Il primo tratto di strada percorsa sembra l'inizio di una giostra degli orrori; ai nostri lati scorre una lunga serie di enormi ragnatele, punteggiate di rugiada e popolate da ragni di dimensioni veramente ragguardevoli... Brrrr... Verso le 8 di mattina giungiamo in un'ampia prateria; il sole si sta facendo largo tra le ultime nebbie e di li a poco iniziamo a scorgere i primi gruppi di cervi e gazzelle. Ci fermiamo con la jeep sotto ad un albero popolato di simpatiche scimmie; in lontananza scorgiamo un uomo in groppa ad un elefante e la nostra guida decide di raggiungierlo: e' un guardia-parco che ci spiega che stava pattugliando la radura in quanto sospettava la presenza di una tigre. Torniamo quindi sotto l'albero delle scimmie attendiamo. Dopo una ventina di minuti inizio a spazientirmi e chiedo alla guida se non e' meglio andare da un'altra parte: dopotutto c'e' un potenziale di 1900 km quadrati da esplorare! Forse c'e' una tigre - mi dice - aspettiamo. Di li a poco le scimmie sull'albero inizia a urlare come impazzite. E' il segnale! The tiger is coming! - grida eccitata la guida. In effetti le scimmie urlano e hanno lo sguardo fisso verso la prateria. Salto in piedi sul sedile, macchina fotografica in mano. A 20m di distanza sbuca una tigre dall'erba alta della prateria e attraversa la strada di fronte alla jeep. Scatto con le pulsazioni in rapida accelerata. La tigre cammina tranquilla, non ci degna neanche di uno sguardo e sparisce di nuovo nella prateria. Ci stringiamo le mani e ci scambiamo pacche sulle spalle in un momento di esaltazione collettiva poi ripartiamo, aggiriamo la prateria e attendiamo la tigre, che potrebbe comparire nuovamente la dove l'erba lascia il posto agli alberi. Ci piazziamo quindi ai margini della prateria, nascosti in un leggero avvallemento del terreno; alla nostra destra, arbusti e un cumulo di grosse roccie, alla sinistra, foresta. Siamo in silenzio. La tigre potrebbe apparire da un momento all'altro. Wow! Compare propria in cima alle roccie e poi scende passando questa volta a meno di 10m dalla jeep. Roba da Libro della Giungla! Un brivido lungo un minuto, poi la belva scompare definitivamente in un impenetrabile vegetazione.
Passiamo ancora alcune ore nel parco in uno stato di completo appagamento: non ci poteva capitare di meglio! A mezzogiorno, quando lasciamo il parco, firmiamo il "libro degli avvistamenti"; non capita a tutti!
Tornato al lodge mi abbandono ad un sonnellino pomeridiano e mi godo la tranquilla serenita' della natura, lontanto, finalmente, dalla frenesia urbana indiana.
Rene'

domenica 18 novembre 2007

Cartoline indiane

Il primo viaggio in India non puo' ritenersi completo senza la visita al Taj Mahal, la "cartolina" indiana per eccellenza. E' un monumento splendido e impressionante, che lascia senza fiato e a bocca aperta. Un grandioso mausoleo di marmo voluto dall'imperatore Shah Jahan per la sua seconda moglie. Il Taj e' stato eretto su una piattaforma, sempre di marmo, che consente unicamente al cielo a fare da sfondo al monumento. In fronte ad esso, giardini ornamentali e una serie di fontane rendono perfetta la magia. Il prezzo della bellezza, si sa, e' alto, ma lo pagano solo gli stranieri (15 euro a cranio), mentre gli indiani se la cavano con 40 eurocents!
Il Taj mi magnetizza e la sua vista accompagna quasi ogni momento della mia giornata, dalle colazioni fino alle cene, sempre consumate su terrazze con vista monumento.
Il Taj Mahal e' sicuramente il pezzo forte dell'India da esportazione, ma vogliamo non parlare della esotica cucina indiana? Quest'ultima e' senza dubbio la migliore sorpresa del mio viaggio nel subcontinente. I pasti frugali e monocromatici dell'Asia Centrale sono ormai un lontano ricordo. Qui e' tutta un'orgia di sapori, spezie, aromi e colori. La cosa che mi stupisce maggiormente e' il fatto che l'India e' un Paese in larga parte vegetariano e, nonostante cio', i piatti che compongono il menu sono veramente tanti. In Italia le verdure per me erano semplicemente insalate o bollite e, sostanzialmente, un contorno. Qui in India assumono un significato diverso e diventano il piatto principale di una cena: verdure ripiene; oppure in molteplici salse a base di curry; fritte; stufate; crepes e frittelle vegetali... E l'elenco potrebbe andare avanti. Volendo mangiare carne, non e' facile trovare un ristorante adatto, perche' la maggior parte dei locali sono vegetariani. Va detto poi che gli indiani mangiano unicamente carne di pollo e pesce; la vacca, come saprete, e' sacra! Inoltre mi e' parso di capire che hanno una specie avversione per i cibi crudi o poco cotti e, nel caso della carne, sanguinolenti. Mi e' capitato di leggere articoli scritti da giornalisti indiani in viaggio in Europa che lamentavano il fatto di non riuscire a trovare ristoranti con piatti vegetariani soddisfacenti oppure cassavano il pane (tipo ciabatta) perche' troppo duro (ferisce la lingua!). Citavano l'Italia come miglior Paese perche' "almeno li, possiamo soppravvivere a pasta e a pizza". Davvero buffi.
Ma torniamo al personale. Insomma, l'abbondanza di piatti a base di verdure ha fatto si che a partire dal 5 ottobre, data del mio ingresso India, fino al 13 novembre, non ho toccato un pezzo di carne! Non che sia diventato un vegetariano convinto; penso sia una scelta igienica e sicura visto il trattamento infame riservato ai polli e alla loro carne, una volta macellata.
In quanto alle abitudini degli indiani a tavola devo dire che anche in questa situazione sono frenetici e quasi irrequieti. Il cibo, una volta in tavola, e' consumato in fretta e non e' seguito da una chiaccherata conviviale. Sedersi-mangiare-alzarsi. Un ciclo di 30 minuti o poco piu'. Ben altra cosa rispetto alle nostre abitudini europee.
Sul fronte bevande mi sono fatto delle gran scorpacciate di lassi, un drink a base di yoghurt che, alla mattina, da una piacevole sensazione di sazieta'. Poi c'e' il the (in indiano, chai), presenza fissa in ogni momento della giornata, bevuto in piccoli bicchieri di vetro con aggiunta di latte e molto zucchero. Lungo le strade e nei vagoni dei treni echeggiano senza sosta le voci dei venditori di the: chai chai chai!
E il fisico? Sempre bene, per fortuna. Temevo l'India, ma finora tutto ok. Mi hanno solo tradito un dolcetto, seguito a mezz'ora di distanza dallo scherzetto, e un bicchiere di lassi, a base di yoghurt probabilmente avariato, che ha trasformato il mio intestino in una specie di tubo di scolo di un lavandino; ogni volta che mi spostavo o cambiavo posizione sentivo un inquietante e pericoloso gorgogliare!
Taj Mahal e cibo: l'India al meglio!
Rene'

lunedì 12 novembre 2007

L'India e la sua capitale

Delhi e' lo specchio in cui si riflette l'India di oggi. Ci arrivo con uno scomodo viaggio in treno, 4 ore in seconda classe, l'ultima e la piu' economica. Nello scompartimento c'era gente ovunque: seduta per terra, schiacciata sui sedili e anche sdraiata sui porta bagagli. Sceso a Delhi mi preparo al peggio. Cosa mi succedera' in questa megalopoli di 13 milioni di abitanti? Temo di venire risucchiato dalla citta' e dalle sue strade, fagocitato, spolpato, fatto a pezzettini e poi rispedito in Italia. Macchè, niente; proprio un bel nulla. E' invece un interessante ritorno alla vita e ai ritmi di una capitale.
Dalla stazione, con un breve passeggiata, raggiungo Paharganj, il quartiere dove dormono quasi tutti i travellers; una trafficata strada di 2 km con alberghi e negozi uno in fila all'altro. Mi baso all'Hotel Lord Krishna che, a dispetto del nome, non e' proprio un posto frugale. Dormo nella miglior camera avuta in India nelle prime due settimane di viaggio. C'e' pure la TV, cosi mi godo scampoli della due giorni di Champions League (yes!) oppure un film su Star Movies (Jurassic Park 3, Ritorno al futuro 2, per citarne alcuni).
Per molti viaggiatori Delhi e' il punto di arrivo o di partenza dall'India e Paharganj offre al turista tutto quello di cui ha bisogno. Alloggio a prezzi modici, un ricco piatto di curry, il look appropriato per la vacanza o l'ultima collanina prima di tornare a casa. La strada principale e' caotica e oltre a dover schivare il via vai di moto, rickshaw e mucche e' necessario dribblare gli esagitati negozianti. Ogni tanto si incrocia qualche residuato dell'era hippy, consumatissimo dagli anni, o qualche tipo pieno di piercing e con lo sguardo spento, che ha donato probabilmente una parte di cervello nel corso di un rave su una spiaggia di Goa. Si notano subito perche' sono troppo diversi dal resto della folla che anima la via.
A Delhi resto 5 giorni, piu' del previsto; mi trovo bene: si allenta la morsa dei procacciatori d'affari e ho la tranquillita' necessaria per esplorare l'enorme citta' e cercare di capire l'India. Si, l'India. Un gigante, in tutti i sensi. Geografico, economico, sociale. Si stima che la sua popolazione superera' quella della Cina entro il 2050, in assenza di una adeguata politica di pianificazione famigliare. Ogni anno aggiunge, in quanto ad abitanti, una Australia intera; e la preoccupazione generale e' quella di avere abbastanza cibo e posti di lavoro per tutti. L'economia galoppa, la Borsa sale ma i servizi pubblici sono ancora carenti e una grossa fetta della popolazione, soprattutto nelle campagne, vive in condizioni di poverta'. A Delhi c'e' una metropolitana nuovissima, inaugurata qualche anno fa; tirata a lucido, con aria condizionata, e' un piacere prenderla e abbandonare i movimentati e rumorosi spostamenti in autorickshaw.
Il futuro dell'India sembra essere scritto nel viso dei giovani di Delhi: sorridenti, vestiti alla moda e attenti ai dettagli, cellulare in una mano e lettore mp3 nell'altra, allegri all'uscita dal cinema o rumorosi all'interno di un fast food. Preoccupati del proprio aspetto come gli attori di Bollywood, le vere superstar indiane, piu' famosi e conosciuti di qualsiasi politico. India: un paese in bilico tra modernita' e tradizione. I genitori rimproverano ai giovani uno stile di vita troppo frivolo e sono preoccupati dalle conseguenze dell' afflusso di novita' dall'occidente tanto da arrivare a far pedinare da un detective privato il figlio in vacanza-studio all'estero. La migliore barriera a protezione della cultura indiana, che ne evita il diluirsi e le impurita' provenienti dal resto del mondo, e' tuttora la famiglia e la pratica, ad essa collegata, del matrimonio concordato (l'80% dei matrimoni in India sono concordati). Il giornale della domenica ha una sezione speciale di oltre 10 pagine di annunci matrimoniali, divisi per caste, gruppi di eta', sesso, provenienza. Ne trascrivo uno, per farvi capire. Sono particolari e alcuni fanno sorridere. We are looking for a tall Rajput boy, age 26-29 years, with Engineering & Management qualification from highly reputed institutions. Success oriented and highly ambitious, vegetarian boy, presently in India or overseas, with respect for traditions but modern outlook from a respectable family... L'ultima frase sintetizza perfettamente quello che l'India vuole essere al giorno d'oggi: un Paese con una prospettiva moderna, nel rispetto delle tradizioni. Lo stile degli annunci puo' variare ma la sostanza rimane la stessa: il futuro moglie/marito deve essere bello, educato, magro, istruito, meglio se di business family.
Sdraiato nella serena tranquillita' dei Lodi Gardens alzo lo sguardo dal giornale e scruto un antico, screpolato, mausoleo. Mi preparo all'animazione del prossimo mercato; qui a Delhi ce ne sono tanti, uno in ogni quartiere, e diversi, come i suoi abitanti: vestiti griffati o contraffatti, gioielli o bigiotteria, gastronomia europea o spezie orientali. Old Delhi e New Delhi. Nella prima: stradine strette, sporcizia, rumori, odori, bazaar, sovraffollamento, case a 2 piani, un forte e la moschea piu' grande dell'India. Nella seconda: alberi, parchi, grattacieli e cinema multisala, gelaterie e fast food, pianificazione urbana, viali spropositati e alti muri di cinta a proteggere gli edifici governativi e le residenze dei politici. Old e New si toccano e si mischiano a Paharganj e a me non resta che scegliere da che parte andare.
Rene'

domenica 4 novembre 2007

La terra dei Re (2)

Jodhpur, Rajastan: il Meherangarh Fort troneggia in cima ad un colle e sovrasta maestoso la citta'. E' forse il monumento che simboleggia al meglio lo sfarzo, il lusso e il potere di cui godeva un maharaja. Dotato di audioguida mi avventuro alla scoperta di questa citta' nella citta' e provo ad assoporare il gusto che doveva avere la vita della famiglia reale. Entro in sale dai muri dipinti e adornati da centinaina di piccoli specchi, placche dorate, sete preziose e tappeti. Molto interessante e curiosa e' l'esposizione di palanchini, dove venivano trasportati, a forza di braccia, re e dame di corte.
Dai balconi del forte si gode di una vista splendida su tutta Jodhpur e in particolare sul quartiere dei bramini (i sacerdoti) con le sue case interamente dipinte di blu e azzurro. Prendo tempo per navigare con lo sguardo oltre la citta' e mettere a fuoco la pianura e i campi che si perdono nell'orizzonte prima di tornare al trambusto della Jodhpur cittadina.
La Blue House Guesthouse, dove alloggio, e' gestita da una famiglia di Jains che mi spiegano alcuni concetti base della loro religione (gianismo), una deriva dell'induismo, come il rispetto di ogni forma vita animale e il conseguente fatto di essere puramente vegetariani che significa, ad esempio, che dalla tavola sono bandite le uova. La casa ha una terrazza sul tetto perfetta per rilassarsi e far passare le ore calde del pomeriggio, sorseggiando the con lo sguardo fisso in alto, verso il forte.
Udaipur. Se Jodhpur e' la citta' blu, per via delle case colorate dei bramini, Udaipur e' la candida citta' bianca, teatro di un'altra favolosa follia dei maharaja. Constatato il fatto di vivere in un territorio arido dove l'acqua, ad eccezione del periodo monsonico, scarseggia, Udai Singh II, ha pensato bene di sfruttare le pioggie del monsone per creare un lago: ha costruito una diga, dando quindi vita a Lake Picholla, un ampio bacino artificiale (intorno al 1600!). Sulle sue sponde ha eretto un enorme palazzo mentre all'interno del lago ha costruito una ulteriore residenza. Udaipur da il meglio di se' nelle ore serali quando dal balcone della mia guesthuose, affacciata sul lago, fantastico con lo sguardo sul palazzo che spunta dalle acque, magnificamente illuminato da centinaia di candele e torce. Il riflesso delle luci sulla nera superficie lacustre fa sembrare il palazzo sorretto da una fila di palafitta dorate. Il tempo sembra essere rimasto fermo alla magica era dei Re. In lontananza, oltre i bagliori della citta', un punto di luce fisso a meta' strada tra l'orizzonte e le prime stelle ricorda un sogno di gloria e potenza rimasto incompiuto: il Monsoon Palace, ovvero la residenza perfetta, posta sulla cima di un monte appuntito, dove la vista puo' spaziare lontano, molto lontano, sulle terre e sui domini reali. Il palazzo non e' mai stato completato, cio' nonostante non manca di trasmettere un'aria di grandezza e nobilta'.
Udaipur, il Palazzo in mezzo al lago e il Monsoon Palace sono stati utilizzati nel corso delle riprese di 007, Missione Octopussy, con Roger Moore. Molti ristorantini turistici trasmettono ogni giorno la pellicola: ne approfitto per passare una serata insolita davanti alla tv insieme ad un piatto di curry alle verdure. Il film e' abbastanza noioso con stunts improbabili come Ape Piaggio che impennano nelle strette strade di Udaipur Vecchia e aerei che attraversano in volo hangars e escono da una fessura nella porta che si sta chiudendo (ovviamente volando perpendicolarmente al terreno!).
Continuo il mio tour alla scoperta di forti e palazzi visitando Chittor e Bundi dove, rispetto alle citta' viste in precedenza, scopro il fascino del monumento abbandonato, misterioso, celato dalla vegetazione, popolato da animali e spiriti del passato. A Chittor il forte si trova in cima ad una collina: su una vasta superficie sono stati eretti palazzi e templi, talmente distanti l'uno dall'altro che per vederne un paio mi faccio dare dei passaggi in moto. I monumenti sono animati da una vivace popolazione di scimmie che si esibiscono in acrobazie e salti tra i resti dei palazzi.
A Bundi invece, oltre alle scimmie, ci sono stormi di pipistrelli che si fanno vedere soprattutto alla sera quando, a migliaia, abbandonano le stanze del palazzo che sovrasta la citta'. Durante la mia visita allo stesso mi sono trovato sulla strada di una decina di pipistrelli che stavano volando giu' per la tromba di una scala... iiiiihhh... spavento!
Chiudo il capitolo Rajastan visitando Jaipur, la citta' rosa e capitale della regione. Sono abbastanza stanco: negli ultimi dieci giorni mi sono spostato in continuazione, quasi esclusivamente su bus sovraffollati e su strade scorbutiche, per non menzionare il continuo assillamento subito da parte dei procacciatori d'affari, la vera spina nel fianco del Rajastan; sempre attaccati alle caviglia dei viaggiatori, ti bombardano di proposte dal momento che scendi dal bus (o treno), quando devi farti largo tra una folla di tassisti assatanati, fino all'ora di cena, quando loro hanno gia' scelto per te il ristorante nel quale andare a mangiare. A Jaipur questo "trattamento" da finti amici tocca l'apice e non si fa in tempo ad allontanarne uno che ne compare un'altro. Ma basta un cenno deciso con la mano e un fermo "no, grazie" per tornare ad assaporare, in tranquillita', la magia del Rajastan.
Rene'

martedì 30 ottobre 2007

La terra dei Re (1)

Terra dei Re, e' questo il significa di Rajastan, una regione arida e spettacolare che racchiude ed evoca ad ogni passo lo sfarzo e i fasti dei Maharaja.
Bikaner e' la prima citta' che visito, ai margini nord orientali del Gran Deserto di Thar, il torrido confine naturale che separa India e Pakistan. E' forse la destinazione meno turistica del Rajastan; c'e' un bel forte e una citta' vecchia con edifici storici, ringhiosi cani randagi e carri trainati da cammelli. L'attrazione principale si trova pero' una decina di km fuori dal centro: e' il Karni Matha, il tempio dei topi. Qui una antica leggenda vuole che i roditori siano una incarnazione di cantastorie e che quindi siano considerati sacri e venerati. Gli animali affollano il cortile del tempio e si abbeverano intorno a grosse scodelle contenenti latte, offerte dai devoti. E' segno di buon auspicio se, nel corso della visita, si avvista un topo bianco. A me non e' capitato: ero piu' occupato a cercare di evitare i roditori e le cacche di piccione (nel tempio si entra a piedi nudi).
Mi lascio alle spalle Deshnok e il Karni Matha per puntare in direzione sud-ovest: mi addentro ulteriormente nel deserto e raggiungo Jailsamer. La citta' una piccola e incantevole gemma dorata, incastonata in cima ad uno scoglio roccioso che spicca solitario in mezzo al terreno arido e brullo. Ogni casa a Jailsamer ha un tetto piatto che e' perfetto per addentrarsi con lo sguardo nel vasto spazio desertico. Solo ogni tanto la tranquillita' del posto e' rotta dal boato di un jet supersonico che pattuglia il vicino confine con il Pakistan. Anche se la cittadella si e' ormai sposata alle esigenze turistiche - il numero di ristoranti e alberghi e' ben al di sopra delle reali necessita' - e di giorno e' sul punto di soffocare, stretta nella morsa di turisti, negozianti e guide, e' alla sera che regala sensazioni magiche, quando le luci si spengono e le voci e i rumori si dissolvono lasciando il posto alla serena, silenziosa e fresca notte desertica.
A Jailsamer vengo colpito dal richiamo dell'avventura e ben presto mi trovo a dorso di un cammello a trottare in mezzo al deserto. La caravana e' composta, oltre che da me, da una giovane coppia di coreani e da una coppia di spagnoli. Rispetto al cavallo, il cammello ha una andatura dal ritmo piu' lungo e dolce e si e' seduti ad una altezza maggiore sul terreno. Il primo giorno cavalchiamo per circa 5 ore in mezzo a una vegetazione composta da arbusti spinosi, qualche albero e roccia intervallata a fili d'erba affilata. Il sole picchia duro e mi costringe ad abbeverarmi spesso dalla borraccia: l'acqua e' diventata presto calda come un the! Verso mezzogiorno l'ombra di un grosso albero ci accoglie come un oasi; stendo un tappeto e dopo essermi sgranchito gambe e sedere casco in un piacevole sonnellino. Il pranzo, considerato il fatto che siamo in mezzo ad un deserto, e' molto buono: patatine fritte, curry di verdure, riso e chapatis; niente male. Mi torna in mente l'escursione in cavallo in Kyrgyzstan quando i pasti erano costituiti da pane raffermo, yoghurt e zuppe di montone... Decisamente tutta un'altra storia!
L'aria e' molto calda e secca ma all'ombra si sta bene e spira una leggera brezza. Dopo il pranzo mi addormento nuovamente; sto diventando un indolente orientale, sempre seduto o sdraiato da qualche parte.
Per fortuna non sono partito con l'idea di navigare in un mare di sabbia. Di dune ce ne sono poche; ogni tanto se ne avvista un gruppetto isolato, che si alza dal terreno roccioso. E' tardo pomeriggio quando scorgiamo la nosta isola di sabbia. I cammelli vi si dirigono al trotto e danno il colpo di grazia a sederi poco abituati alla marcia. Carlos e Maria (gli spagnoli) alzano bandiera bianca e rinunciano al secondo giorno di escursione; domani mattina faranno solo un'ora a dorso di cammello per poi tornare in jeep a Jailsamer. Io e i coreani invece decidiamo di concludere l'escursione come da programma.
In silenzio, in cima a una duna, assistiamo alla sfera dorata del sole che si inabissa dinanzi ai nostri occhi tingendo l’orizzonte di un arancione intenso. Accolgo la sera e la frescura della notte con gran piacere, dopo avere passato quasi un'intero giorno sotto un sole spietato. Non fa freddo e mi appresto a dormire tranquillo raggomitolato nel mio sacco a pelo, sul giaciglio (uno strato di tappeti) preparatomi dalla guida. Poco distante, giunge di tanto in tanto un gridolino da parte della coppia coreana, ancora intenta a contare le stelle cadenti.
Svegliatomi alla mattina capisco subito di non avere dormito da solo: intorno al mio tappeto ci sono decine di sottili traccie. Sono gli scarabei che questa notte devono essere stati particolarmente attivi. Ad alcuni metri di distanza ne scorgo alcuni intenti a combattere per una pallina di sterco di cammello piu' grossa di loro!
La seconda gironata si rivela abbastanza monotona: il panorama e' un costante susseguirsi di roccie e arbusti, per nulla spettacolare; l'andatura del cammello e il sole cocente mi rimbambiscono. Passiamo sette ore interminabili e il sollievo e' grande quando, nel pomeriggio, avvistiamo la jeep che ci riportera' a Jailsamer. Fine della gran carovana desertica.
Di ritorno in citta' compio subito il passo successivo e con un bus notturno mi sposto a Jodhpur, la Citta' Blu, dove piombo ancor prima delle luci dell'alba. Scelgo a caso un hotel dalla guida e mi ci dirigo su un auto-rickshaw. E' buio e le strade del centro sono deserte. Per fortuna il tassista sa il fatto suo e mi conduce sicuro a destinazione. Sbrandiamo il proprietario della Blue House Guesthouse: alle cinque di mattina ritrovo finalmente un soffice e piacevole materasso.
Rene'

giovedì 25 ottobre 2007

Un inizio agrodolce

L'ultima immagine che conservo del Pakistan e' quella della cerimonia di chiusura del confine con l'India: soldati enormi, alti anche 2 metri, imbellettati e vestiti di nero che marciano ad ampi passi verso il confine indiano, alzando le gambe in modo innaturale e pestando violentemente i piedi; il suono generato accentuato dalla presenza di una placca metallica sotto la suola degli stivali! Gli indiani, dall' altro lato del confine, fanno altrettanto. I soldati dei due Paesi, arrivati in marcia fino al cancello che li divide, si fermano a pochi centimetri l'uno dall'altro, quasi si toccano, si guardano ferocemente negli occhi e gonfiano il petto. La folla, accorsa numerosa ad assistere allo spettacolo, incita con cori e batte le mani. Lungo la strada, sia sul versante indiano che su quello pakistano, sono state allestite delle tribune; sembra di essere allo stadio. La parte indiana vince in quanto a pubblico, folklore e rumore. In Pakistan invece, forse a causa del Ramadan, la presenza e' ridotta, ma non meno fiera e genuinamente nazionalista. La cerimonia termina con l'ammainamento della bandiera e la chiusura, violenta, della cancellata. Ogni giorno lo spettacolo si ripete, a mantenere viva la rivalita' tra i due Paesi.
Come dicevo, questa e' l'ultima immagine che conservo del Pakistan, ultima in ogni senso perche' appena entrato in India, nel corso del secondo giorno di permanenza, mi hanno rubato la macchina la fotografica; e questo proprio durante la cerimonia di chiusura del confine, che stavo guardando sul lato indiano! (Volevo fare il gioco "scopri le differenze" tra le due cerimonie...)
Nello spingi spingi per accaparrarsi le posizioni migliori sulle tribune qualcuno mi ha sfilato la macchina dall'astuccio che tenevo a tracolla. Porca miseria, non avevo ancora salvato nessuna fotografia del Pakistan; son tutte perse! Tranne che nella mia memory card cerebrale...
E' un brutto colpo, che condiziona i miei primi giorni in India, rendendomi diffidente e nervoso. Peccato, perche' Amritsar e' un posto particolare. La citta' si trova ad una trentina di km dal confine pakistano ed e' il maggiore centro religioso dei Sikh, gli indiani con il turbante, per interderci. Qui vengono in pellegrinaggio al Golden Temple, un bellissimo edifico, molto grande, di un bianco accecante, che al suo interno ospita un lago rettangolare; al centro di quest'ultimo, si trova una struttura interamente dorata dove i Sikh, giunti dall'India e da ogni angolo del mondo, convergono a venerare il loro testo sacro. Il tempio e' aperto giorno e notte e gli altoparlanti trasmettono incessantemente canzoni e salmi. I pellegrini si immergono nelle acque sacre del lago o pregano lungo le sue sponde. Nonostante sia molto affollato, sia di giorno che di notte, il luogo trasmette una sensazione di armonia e tranquillita' ed e' piacevole passare il tempo seduti per terra ad ammirare la folla.
Per due giorni ho alloggiato nelle strutture del tempio che dispone di tre edifici che funzionano da ostello per i pellegrini. Il via vai e' costante e colorato. Uno dei palazzi ha al piano terra una stanza dormitorio per gli ospiti stranieri. E' quasi sempre piena di travellers che, come me, vengono ad ammirare questo luogo magico. La sistemazione e' veramente basic, un mini materasso consumato dal tempo posto su una tavola di legno, ma in compenso vitto e alloggio sono a spese del tempio (si accettano donazioni!). All'esterno del nostro stanzone, nel cortile dell'edificio, dormono avvolti nelle coperte i pellegrini che non sono riusciti a trovare posto in una camera; sono tantissimi e occupano quasi tutta la superficie calpestabile.
Un giorno sono stato a pranzo nella mensa del tempio; disposti su lunghe file, si mangia seduti per terra, gambe incrociate e gomito a gomito. Il menu' e' semplice: prevede una zuppa di lenticchie, una pappa dolce di colore gialla, dolciastra (forse a base di legumi) e le immancabili piadine (chapatis). Anche la mensa lavora su 24 ore e c'e' sempre tantissima gente da sfamare, oltre 100mila pasti al giorno, si dice. Subito all'esterno dell'edificio si avverte il rumore metallico, quasi assordante, delle centinaia di volontari che lavano le stoviglie.
Il tempio dorato e' stato il guscio protettore dei miei primi giorni in India: ne ha attutito il caos delle strade, i contrasti, le contraddizioni, i rumori e la sporcizia. Avremo tempo per approfondire tutti questi aspetti!
Dopo Amritsar e il suo splendido tempio mi si prospetta ora il Grand Tour del Rajastan, la destinazione (e provincia) piu' turistica dell'India.

Rene'

lunedì 22 ottobre 2007

Lahore madness

Lahore: un agglomerato ben oltre i 5 milioni di abitanti, seconda citta' piu' grande del Pakistan e capitale culturale del Paese. Ho il visto per l'India in tasca, ritirato all'ambasciata di Islamabad, la capitale costruita a tavolino 40 anni fa: una strana composizione urbanistica di quartieri, disposti e denominati come le caselle della battaglia navale (F7 piuttosto che G9). Aree urbane quadrate o rettangolari che si sviluppano intorno a un bazaar o shopping mall, collegate tra loro da strade a multi-corsia. C'e' molto verde, sia all'interno delle "isole" abitate che tra i quartieri, ma e' una natura fuori controllo, non curata. Lande con erba alta un metro, arbusti e boschetti impenetrabili, come l'enclave diplomatica (quartiere G9, quello delle ambasciate) accessibile solo con un servizio bus navetta, dopo avere superato i rigidi controlli che si effettuano nell'apposita area di raccolta. Se la citta' e' stata progettata per essere il fiore all'occhiello del Pakistan per ora l'effetto e' quello di un biglietto da visita stropicciato. La superficie cittadina e' troppo vasta e scoraggia pure la visita all'unica attrazione turistica della capitale: l'enorme moschea dai minareti a forma di missile. Ma torniamo a Lahore...
Grazie a delle connections paterne alloggio all' Holiday Inn, uno dei migliori alberghi della citta', a spese di una industria tessile locale. Mi godo il lusso inaspettato: lettone, aria condizionata, doccia con acqua bollente, tv via cavo, wireless internet e piscina sul tetto dell'edificio. Quest'ultima utilizzata, penso, unicamente da me, alla faccia delle rigide tradizioni locali in tema di abbigliamento (non ho mai visto un pakistano a petto nudo in pubblico). La mia stanza, perfettamente insonorizzata, e' la migliore via di fuga al caldo afoso della citta', allo smog, al rumore e al traffico.
Lahore non ha certamente il fascino che ti puo' dare una passeggiata nel centro storico di Peshawar; possiede tuttavia almeno due edifici degni di nota, nobili e maestosi. Il primo e' la Grande Moschea, datata 1600, che, all' interno del suo perimetro, puo' ospitare fino a 10.000 persone in preghiera. L'illuminazione notturna del monumento lascia a bocca aperta e ne enfatizza le dimensioni spropositate. Il secondo e' il Forte che, per costruzione e architettura, e' una piacevole anticipazione di quello che vedro' in India.
Il culmine di una visita a Lahore si tocca nella giornata di giovedi quando la citta' vive due vivaci eventi di natura religiosa. Al pomeriggio, all'interno di un mausoleo, gruppi musicali giunti da tutto il Pakistan esibiscono il loro repertorio di canzoni islamiche mentre alla sera il centro dell'azione si sposta allo Shah Jamal, un altro luogo di culto.
L'ostello piu' famoso di Lahore, il Regale Internet Inn (nome curioso), organizza escursioni a entrambi gli eventi, con una guida locale, assolutamente necessaria perche', andando da soli, ci si sentirebbe senz'altro "fuori posto". Pur alloggiando all' Holiday Inn ho fatto spesso visita al Regale Inn, una vera oasi nel deserto (non ci sono infatti altri ostelli a Lahore), dove ho rincontrato Ben e Jessica (quelli dell' escursione al Khyber Pass), Mirko (il viaggiatore tedesco fricchettone conosciuto nel Nord del Paese) e una serie di altre faccie che avevo gia' visto in passato.
Giovedi ore 22, quindi. Un gruppo di una quindicina di persone, me compreso, parte alla volta dello Shah Jamal, per quella che in città e' conosciuta in come la "Sufi Night". I nostri apecar dribblano il traffico e sfrecciano veloci lungo le strade; si addentrano in quello che pare essere un quartiere residenziale; sensazione presto dissipata dalla folla che ci si para davanti, impedendo il passaggio ai mezzi. Malik, la nostra guida, ci fa depositare tutte le scarpe all'interno di un sacco per la spazzatura e ci accompagna all'interno del tempio. Abbiamo una piccola zona riservata: due fila di gradini, sotto ad un altare di pietra. Di fronte a noi un cortile non piu' grande di 100 metri quadrati, chiuso su tre lati da altri edifici e con il lato aperto sorvegliato da un albero secolare. Il clima si sta surriscaldando. Due musicisti con enormi tamburi appesi al collo producono suoni profondi e ipnotici. Lo spazio calpestabile del cortile e' interamente occupato da ragazzi e uomini accovacciati (niente donne) che muovono ritmicamente la testa e rilasciano nell'aria bianchi nuvoloni di fumo. Alcuni di loro hanno le mani chiuse a pugno e stringono fino a cinque sigarette, che hanno precedentemente svuotato con maestria e riempito nuovamente con una mistura di tabacco e hashish. Balzano incerti tra la folla offrendo il pugno fumante a destra e a sinistra. Il calore dei corpi ammassati - non c'e' più posto per uno spillo - rende l'aria umida e pesante; ogni tanto viene rinfrescata da spruzzate di acqua profumata alla rosa, vaporizzate da alcuni inservienti che si aggirano, in precario equilibrio, tra la folla. I musicisti, chini sui tamburi, sudati, producono un frastuono assordante; devono avere in corpo una energia sopranaturale perche' non si sono ancora fermati un attimo. La folla rumoreggia quando apprezza un cambio di ritmo e si scalda quando la cadenza inizia a diventare frenetica.
Tra gli "ospiti" stranieri inizia una gara di resistenza. Compressi sui nostri gradini, cominciamo ad avvertire noiosi dolori alle gambe e al sedere. Chi cede si alza e si allontana dal cortile, in cerca di angoli piu' tranquilli.
La situazione musicale si protrae così per quasi due ore fino a una pausa, necessaria per riposare gli artisti e per ricavare uno spazio libero all'interno del cortile. E' ben oltre mezzanotte quando entrano in scena i Sufi: 10 personaggi con una vivace vestaglia rossa e dai lunghi capelli. Tra di loro c'e' anche un ragazzino, dalla pelle scura e con il cranio rasato, che porta unicamente un paio di pantaloncini e ha appeso lungo le gambe e intorno al petto una serie di campane. La cosa fa una certa impressione. Il duo musicale inizia un lento crescendo, martellante e avvolgente. I Sufi iniziano a muovere freneticamente la testa, auto-provocando lo stato di trance. Il ragazzino danza seguendo il ritmo e lo amplifica grazie al suono delle campane. Uno dopo l'altro i Sufi iniziano a roteare, acclamati dal pubblico, che li segue estasiati. Sembrano indiavolati, posseduti. Girano vorticosamente, veloci come trottole, ma nessuno di loro cade. E' incredibile.
Lo spettacolo ha una dimensione irreale, fantastica. Mai visto nulla del genere in passato.
La gente continua a fumare imperterrito; "deve essere la versione pakistana dello sballo", penso. Sono quasi le due di notte e non si ha la sensazione che il rito stia per terminare. Le nostre faccie ormai non nascondono piu' la sofferenza di una posizione a gambe incrociate mantenuta oltre tre ore. Ci alziamo quasi all'unisono e ritorniamo, stanchi, impressionati e taluni rintronati, all'ostello, mentre i mistici Sufi ancora girano, girano, girano...
Rene'

lunedì 15 ottobre 2007

Il principe di Peshawar

No no, non sono io. Il vero principe e' solo Mahir Ullah Khan, da tutti universalmente conosciuto come Prince. A Peshwar deve essere una specie di istituzione. Possiede due negozi, una agenzia di viaggi, e' editore di un giornale e organizza intrepide escursioni. Difficile che un turista, una volta arrivato a Peshwar, non si imbatta in questo personaggio. Un vero clown, istrionico e quasi macchietta, quando si ostina a portare a tracolla una spada argentata, simbolo di famiglia e suo grande motivo di orgoglio. Peshwar e' il posto perfetto per un tipo come Prince e per il viaggiatore in cerca del brivido: ai confini con le aree tribali e l'Afghanistan, terra di briganti e rivoltosi che non esitano a fare la voce grossa contro i provvedimenti imposti dal governo centrale di Islamabad. Si possono visitare fabbriche di armi, dove vengono prodotte repliche di tutte i piu' famosi fucili e pistole; il bazaar dei contrabbandieri (Smugglers Bazaar) dove, oltre a vestiti, elettrodomestici e giocattoli, si scambia oppio proveniente dall' Afghanistan con munizioni di produzione pakistana; i campi profughi afghani; lo storico Khyber Pass; e, volendo, si puo' fare una capatina a Kabul, distante meno di 300km (il consolato afgano rilascia i visti in giornata). Organizza tutto Prince, ovviamente.
L'escursione al Khyber Pass e' nei miei piani; non resta altro che trovare i compagni di viaggio con i quali noleggiare un auto e coprire gli 80km fino al passo e al confine con l'Afghanistan. Il luogo e' storicamente significativo: famosi condottieri ed eserciti sono passati di qui: Alessandro Magno, Tamerlano, gli inglesi, che per ben due volte hanno tentato invano di occupare il territorio afgano. Visto che allo Shan Hotel, dove alloggio, sono l'unico straniero in mezzo a una schiera di pakistani, vado a fare un giro al Rose Hotel, che ospita i pochi travellers che si sono avventurati in questa citta', spesso descritta dai media occidentali come un vulcano sempre sul punto di esplodere. Li incontro Prince che in men che non si dica mette insieme un gruppetto di 3 persone (io piu' Jessica e Ben, entrambi australiani) e fissa l'escursione per l'indomani.
La mattina seguente scopriamo che c'e' un iter burocratico ben preciso da seguire che prevede il rilascio di un permesso di transito nelle aree tribali e l'assegnazione di una scorta armata. Prince ci aiuta a sbrigare le formalita' negli uffici di competenza e ben presto partiamo su un' auto sovraffollata. Noi 3 turisti nel posteriore; Prince davanti con la guardia armata sulle gambe!
Al check post di polizia, che segna l'ingresso nelle aree tribali, dove viene controllato il nostro permesso, percepiamo un certo brivido, come quando si sta per compiere un atto proibito. Siamo tutti un po' emozionati.
La strada di montagna verso il Khyber Pass e' scenica e molte sono le testimonianze storiche lungo il percorso. Prince non sta zitto un attimo e ci assilla con le sue proposte: "Rene' vuoi sparare? Quanti proiettili? Tranquillo non c'e' problema". "Prince", rispondo, "non ho mai usato un fucile in vita mia e non penso proprio di iniziare l'attivita' sparando per aria lungo una strada verso l'Afghanistan!".
Ci fermiamo alcune volte lungo il percorso per scattare delle foto, anche insieme alla nostra guardia armata; Prince non esita ad ammonirci di non abbandonare assolutamente la strada asfaltata perche' oltre la carreggiata lui non ci puo' proteggere: e' zona tribale vietata. L'ultima localita' che riusciamo a raggiungere prima dell'Afghanistan e' il Michni Checkpost, bastione e punto di osservazione dell' esercito pakistano, eretto su una sporgenza naturale del terreno. Da qui Kabul dovrebbe distare circa 200 km. Non nascondo di avere avuto l'insana idea di farci una puntata: dopotutto sembra essere cosi facile da raggiungere e, dal confine, si ha la sensazione di percepire le vibrazioni della citta'. Proposito subito accantonato. Non dimentico che c'e' una guerra in corso e la zona non e' per niente sicura.
La veduta dal checkpost e' splendida. Sotto di noi si snodano gli ultimi tornanti del passo, che terminano in un'ampia aria di sosta, invasa da camion e autoarticolati. Mi aggrappo a una balconata e con lo sguardo seguo le colline di fronte a me; su alcune cime, avvisto altre postazioni di guardia dell' esercito. Ogni collina ha un grosso numero dipinto sul pendio; ne conto almeno quattro. Al centro, in mezzo alla vallata, si trova l'animata dogana, con centinaia di automezzi in attesa del varco su entrambi i lati. Oltre la prima di linea di colline scorgo squarci di territorio afgano e cerco di immaginare come deve essere la vita, in questo preciso momento, a Jalalabat o a Kabul.
Un caldo vento mi sta ancora sferzando il viso quando Prince termina l'elenco dei condottieri che hanno attraversato il passo e ci ricorda che e' giunto il momento di tornare a Peshawar. Lungo il tragitto di ritorno io, Ben e Jess cadiamo in un sonno catatonico, forse soppraffatti dal numero di pensieri che hanno affollato le nostre teste in questa breve escursione o piu' semplicemente perche' cullati dalla ritmica alternanza dei dolci tornanti del Khyber Pass.
Restero' a Peshawar ancora per un paio di giorni, cercando di scoprire le ingarbugliate trame dell' animatissimo centro storico. Un dedalo di strette e tortuose vie, storici palazzi dall'aspetto semi-abbandonato, uomini indaffarati e donne nascoste dietro i burqa, negozi, moschee, ronzanti ape-car e carretti di legno: colori, odori, sporcizia. Quasi immedesimandomi con la folla, attraverso a zigo zago la citta', ma, anche se vesto una celeste combinazione di pantalone e tunica (fatta fare su misura a Islamabad) sono pur sempre uno "straniero" e, se non fosse per il Ramadan, avrei passato sicuramente un sacco di tempo a sorseggiare the', magari all'interno di un negozio di spezie, raccontando a curiosi occhi pakistani la storia del mio viaggio.
Rene'