domenica 23 settembre 2007

Dove osano le aquile (1)

Faccio uno sforzo e mi lascio alle spalle il piacevole ozio di Karimabad. Il raffreddore sta passando e mi sento pronto per alcuni giorni di trek nelle montagne. Mi sposto un centinaio di km piu' a sud e arrivo a Gilgit; e' il centro piu' popoloso lungo la KKH e all' incirca a meta' strada tra Kasghar (Cina) e Islamabad. Dopo la tranquillita' di Karimabad, Gilgit e' un piccolo shock: e' un grosso bazaar, molto rumoroso, pieno di veicoli strombazzanti e tanta polvere. Fa anche decisamente piu' caldo: di giorno si suda e di notte si combattono le zanzare. Qui si incontra anche un maggior numero di viaggiatori: Sandro e Alex sono di ritorno da alcune settimane di trekking. Mi raccontano di splendidi panorami, faticose camminate, passaggi difficoltosi e di piacevoli incontri con i pastori del luogo. Sandro, professore pugliese di mezza eta', e' di casa da parecchio tempo nel subcontinente indiano; ci diamo un mezzo appuntamento agli inizi di Novembre a Varanasi (India), dove lui fara' da insegnante nell' ambito di un nuovo progetto.
Gilgit, oltre a essere un importante snodo lungo la KKH, e' il punto di confluenza di due grosse valli laterali. La valle occidentale porta verso la citta' di Chitral e una nuova provincia (la NWFP - North-West Frontier Province) fino a incontrare la frontiera con l'Afghanistan; qui le leggi pakistane perdono di significato e lasciano il posto ad un regime di auto governo in mano ad Agenzie Territoriali: sono le Aree Tribali, zone off-limits per gli stranieri e per gli stessi pakistani non di etnia Pashtun, dove gli affari interni vengono regolati secondo antiche tradizioni ed espletate dai malik (i capi tribu').
La valle orientale invece porta verso l'altopiano del Baltisan, la terra dei "giganti bianchi" del Pakistan. E' verso questa area che mi spingo, piu' precisamente verso Skardu.
Sono circa 220km da Gilgit, da percorrere rannicchiati all' interno di un minibus da 18 posti. La strada e' per lunghi tratti altamente spettacolare, paurosamente sospesa sul canyon del fiume Indo, che ribollisce e spumeggia molto, molto piu' in basso. Oltre 6 ore con il fiato sospeso, sballottolati contro il finestrino o le spalle del viaggiatore seduto accanto. La valle e' molto stretta e profonda e la strada letteralmente intagliata, scavata, nei fianchi delle sue montagne. A volte sembra di percorrere un tunnel dove manca uno dei lati, quello sullo strapiombo...! Le pareti della valle sono talmente ripide che la roccia fatica a starci attaccata; le frane sono frequenti e spesso, a causa di cio', la strada e' interrotta.
L'autista non sembra preoccuparsi molto delle difficolta' del tragitto. Fila via spedito e padroneggia con grande abilita' il traffico proveniente dalla direzione opposta; la carreggiata, un misto tra asfalto e sterrato, consente a malapena il transito a due veicoli affiancati e spesso si fa manovra in retromarcia per consentire il passaggio.
Il bello della montagna in Pakistan e' che e' viva e la cosa si percepisce; lo vedi e lo senti in continuazione: come il lontano e sordo boato di una valanga; il cracking di un crepaccio che si allarga accompagnato dal rumore del ghiaccio che si spacca; il rollio frenetico, simile ad una smitragliata, di una roccia che rotola lungo una parete. La terra e' in continua trasformazione... ed e' una forza brutale, selvaggia, spettacolare.
Difatti, dopo oltre 4 ore di viaggio siamo costretti ad uno stop. Davanti a noi si e' formata una fila di alcuni automezzi. Scendo insieme ad altri passeggeri e, voltata una curva, scopro che c'e' stata un frana! Il grosso dei detriti e' stato gia' rimosso ma il passaggio risulta ancora difficoltoso. Molto gente in strada aiuta a parole (Allah! Allah!) e, se necessario, a spinta di braccia, gli autisti a superare il punto critico. Si passa uno alla volta, lentamente.
Quando scendo dal minibus a Skardu, al centro della vasta piana alluvionale del fiume Indo e di quello che viene chiamato "il piccolo tibet", e' come se avessi attraversato un mare in tempesta. Balla tutto e mi devo riposare alcune ore a letto prima di cenare.
Faccio in tempo a vedere il sole tramontare dietro le montagne che circondano Skardu e spegnere, in lontananza, i propri riflessi su un ammasso di dune di sabbia.
Rene'

venerdì 21 settembre 2007

Rilassarsi a Karimabad, Hunza Valley

Faccio una cinquantina di kilometri verso sud lungo la Karakoram Highway (d'ora in poi KKH) e mi stabilisco a Karimabad, paese aggrappato ai fianchi della Hunza Valley, famosa per le piantagioni di albicocchi e per la presenza di un antico forte, costruito nel corso del 13simo secolo in stile tibetano.
E' d'obbligo riprendersi dal raffreddore e devo dire che il posto e' congeniale. Clima mite, camera con vista sulla vallata, giardinetto con pergolato per lettura libri e orticello con coltivazione di maria (quando ho chiesto maggiori dettagli al proprietario della locanda questi ha subito cambiato argomento!). Mentre mi riempio di paracetamolo inizio quindi ad osservare piu' da vicino la societa' pakistana.
La prima cosa che noto e' la scarsa presenza di donne nei luoghi pubblici che diventa totale assenza nelle ore notturne. Non ci sono ad esempio donne che gestiscono botteghe, piccoli caffe' oppure impiegate alle poste, in banca o nelle compagnie di trasporti pubblici. Tutto e' lasciato in mano maschile. Fatto abbastanza curioso e' la categoria di persone che ho battezzato "uomo-tutto-fare" e che si incarna tipicamente nel gestore dell' albergo. Costui infatti si occupa: dell' assegnazione delle camere ai clienti; della pulizia delle stesse al momento del check-out; e della cucina, a qualsiasi ora del giorno e della sera. Anche nei momenti di svago la donna appare in schiacciante minoranza. A Karimabad ho avuto la fortuna di assistere a un concerto pop pakistano in un clima di sagra paesana: la presenza femminile era ridotta all'ossa e strettamente sorvegliata da baffuti poliziotti (pantalone kaki, camicia nera e frustino di legno) che avevano il loro bel da farsi per tenere a bada gli scatenati ballerini che si accalcavano davanti al palco, agitandosi come dei forsennati e alzando nuvoloni di polvere; i poliziotti, con sguardo severo, non esitavano a tirare qualche bastonata.
Ma dove sono le donne allora? Le puoi avvistare di giorno, in lontananza, al lavoro nei campi o mentre lavano i panni nei torrenti. E' piu' facile imbattersi in un gruppo di ragazzine che ritornano da scuola, in veste azzurra e lungo copricapo bianco.
Oltre all'assenza di donne in pubblico non vedo cani in giro. Sembra che in Pakistan ce ne siano veramenti pochi. Non ho ancora capito il motivo ma indaghero'...
Un altro fatto da segnalare, come gia' vi accennavo nel post precedente, e' che il nord del Pakistan e' un luogo parecchio spartano. In nessuno dei Paesi finora visitati mi era mai capitato di tirare l'acqua del water utilizzando un secchio pieno d'acqua. Nel bagno pakistano poi, oltre al secchio, non mancano mai dei recipienti di plastica piu' piccoli con i quali ci si sciacqua il corpo. Negli alberghi piu' economici la doccia e' infatti assente o se presente, e' fredda (come l'acqua di scioglimento di un ghiacciaio). L'uomo gestore tutto fare non esita pero', su richiesta, a portarti un tinello di acqua bollente con la quale poterti lavare. Chiudo l'approfondimento ricordando che spesso si praticano esercizi di flessione alle gambe e tiri di precisione sulle simpatiche turche.
Come a Passu anche a Karimabad alla sera, manca spesso la luce; capita cosi di passare lunghe ore in compagnia della luce traballante di una candela, del profumo di una lanterna a olio o del ronzio costante di una lampada a gas.
All' Old Hunza Inn, dove alloggio, mi chiedo dove siano finiti tutti i turisti. Per 3 notti ho dormito da solo e quando lo faccio notare al gestore mi risponde sconsolato che questa stagione le presenze sono scese del 50%. "Colpa dell' instabilita' politica del Paese, dei continui disordini nella capitale e della cattiva immagine che trasmettiamo verso l'esterno. Invece siamo ospitali e gentili, ma questo all'estero nessuno lo dice". Confermo. In Pakistan sinora mi sono trovato bene, raffreddore a parte, e mi sono sempre sentito sicuro.
I giorni passano a Karimabad e neanche me ne accorgo. Difficile spostarsi quando, seduto in giardino o dalla finestra dell' internet cafe', puoi ammirare le cime innevate di 3 monti alti oltre 7000 metri. Inizi a perderti in decine di pensieri e osservi come i colori del giorno modellano il fianco delle montagna e tingono la valle. E, oltre a cio', qui tutti mi chiamano Sir e la cosa non puo' che farmi piacere!
Rene'

domenica 16 settembre 2007

Karakoram Highway: entro in Pakistan

Concludo la mia settimana di permanenza a Kashgar con un po di preparativi pre Pakistan: cerco di lavare quanti piu' vestiti possibile e mi faccio tagliare la barba da un giovane e svelto professionista del rasoio; disteso su un lettino, come dal dottore, prima vengo massaggiato a lungo con acqua calda, poi insaponato e quindi lavorato con la lama. L'operazione si conclude con un breve ed energetico massaggio del cuoio capelluto. Ora sono pronto per la mitica Karakoram Highway, la strada di montagna che collega Kashgar e la Cina a Islamabad, capitale del Pakistan.
Mi presento puntuale alla partenza del pullman per Sost (posto di frontiera pakistano), ore 10 di Pechino, come mi era stato detto dall' impiegata che mi ha venduto il biglietto un paio di giorni fa, salvo poi scoprire che la reale partenza e' prevista si alle ore 10 ma secondo l'ufficiosa ora di Kashgar (meno 2 rispetto a Pechino). Mi tuffo quindi nella lettura della guida del Pakistan e faccio passare le due ore, mentre arrivano gli altri passeggeri e vengono caricati i bagagli.
Il viaggio verso Sost prevede una tappa intermedia con pernottamento a Tashkurgan, dove si espletano le formalita' doganali cinesi; di viaggiatori, oltre a me, sul pullman, ci sono solo una coppia di polacchi e uno scalatore portoghese, Paulo. La strada verso Tashkurgan e' fantastica: prima si entra in canyon, molto stretto e dagli alti e spioventi bordi, di roccia rossa e ruvida, poi la strada inizia a salire e sfocia in un ampio altopiano, sul quale svetta solitario il Muztag Ata, largo, possente e quasi totalmente ricoperto di neve; un monte ben oltre i 7mila metri. Paulo e' appiccicato al finestrino e gli brillano gli occhi. Mi racconta che due settimane fa ha scalato il monte, insieme a una spedizione alpinistica bergamasca. Con il dito indica il campo base e poi i campi alti. "Ora e' sereno" dice "ma quando ho raggiunto la cima io c'erano molte nuvole e non si vedeva nulla; ho piantato in fretta la mia bandierina e ho scattato una foto". Piu' tardi, durante la cena, tempesto di domande Paulo, cercando di soddisfare le mie curiosita' in tema di alpinismo. La conversazione ruota intorno al freddo. Come ci si protegge? Che temperatura si percepisce in quota? Voglio capire cosa si prova a passare una notte in tenda, circondati dalla neve. Paulo racconta che mentre si e' svegli non fa molto freddo perche' i corpi e la cucina, ad esempio, scaldono l'ambiente, ma quando ci si sveglia alla mattina, le pareti della tenda sono ricoperti da uno spesso strato di ghiaccio. Dice di non essere ancora riuscito a scalare un 8mila; a luglio ha tentanto il G1 in Pakistan, ma ha dovuto rinunciare: poca neve e troppi crepacci. Ora, prima di tornare in Portogallo si concedera' una passeggiata di quasi 100km lungo due ghiacciai pakistani!
L'indomani, chiuse le pratiche alla dogana cinese, riprendiamo la marcia. Il pullman sale lentamente di quota, dai 3400m di Tashkurgan alla cima del passo, gli oltre 4900m del Khunjerab Pass, il posto di frontiera piu' alto del mondo. Fino al passo percorriamo un'ampia valle, a tratti verde, puntata di pascoli e yurte, poi, complice la quota, l'erba lascia il posto alla roccia e l'aria e' rarefatta. La permanenza a 5000m e' troppo breve per creare sconvolgimenti al mio fisico e, dopo avere scollinato, la strada si butta paurosamente verso il basso. Scendiamo lungo stretti tornanti, aggrappati ai fianchi di una montagna e in uno spazio relativamente breve copriamo un dislivello di 2000m. L'asfalto cinese ha lasciato il posto allo sterrato pakistano, ma l'autista non sembra essersene accorto, visto come affronta in modo sprezzante le buche e i sassi.
Prima impressione del nord del Pakistan: terra verticale. Strette valli e montagne che, partendo dal basso, si innalzano vertiginosamente per 5-6mila metri fino a sfidare il cielo e le nuvole.
Entro in Pakistan il 29 agosto e mi stabilisco alcuni giorni a Passu, paese di un centinaio di abitanti stretto tra le lingue di due lunghi ghiacciai: il Passu e il Batoro Glacier. Mi trovo nel fondo di una vallata abbastanza stretta; dinanzi al paese scorre un largo e vorticoso fiume, attraversato in due punti da lunghi ponti sospesi, degni di un film di Indiana Jones: ci sono corde metalliche alla quali aggrapparsi e gli assi di legno sono distanti almeno 30cm l’uno dall’ altro: pauroso!
A Passu mi becco un bel raffreddore. Una mattina decido di fare una breve escursione lungo la morena laterale del ghiacciaio; vesto solo una T-Shirt e nonostante il sole sia molto caldo ben presto mi accorgo di avere fatto una cazzata. Il forte vento freddo che scende lungo il fianco della montagna e investe il ghiacciaio mi colpisce senza tregua, creando il temibile effetto “caminetto” – caldo davanti, freddo dietro. Alla sera ho gia’ il naso gocciolante e un incipiente mal di testa.
Conosco e scambio due chiacchere con i miei vicini di stanza, due tipi abbastanza fuori: un tedesco vestito con tunica e pantaloni pakistani che dice di essere in viaggio gia’ da 5 anni e un giapponese che cammina con delle calze dotate di suola in gomma; dice che in Giappone le usano i muratori che lavorano alla costruzione dei grattacieli. Sediamo nel giardinetto antistante le nostre stanze. Fa molto buio. Entrambe le serate che ho passato a Passu non c’e’ stata elettricita’ (un fatto abbastanza normale, dice il gestore) e il cellulare non funziona. Dopo l’orgia tecnologica cinese, tutto un altro vivere.
Rene’

domenica 2 settembre 2007

La polverosa Kashgar

Eccomi in Cina. E' strano dirlo; sembra un paese cosi lontano, cosi orientale, ma la parte occidentale e' molto piu' vicina all' Europa di quanto possa sembrare. Sono in Cina, eppure mi trovo ancora in Asia Centrale, per l'esattezza nella provincia di Xinjiang, la piu' grande della Cina, terra di Uighuri (musulmani) e cinesi Han.
La Cina e' sviluppata: si vede, si percepisce. Finalmente, dopo oltre un mese e mezzo di viaggio mi godo un letto con almeno 5 cm di materasso, soffice e confortevole, dopo avere dormito su assi di legno, materassini in schiuma, letti sfondati e pile di tappeti: una vera goduria. E la mia stanza, che condivido con altre 4 persone, ha un bagno grande, uno specchio di dimensioni normali, acqua calda... Sorrido ripensando alle camminate nei prati, verso le latrine kirghise. C'e' anche la tv: la accendo per caso una domenica sera e mi ritrovo a guardare Inter-Udinese in diretta!
Rispetto agli Stan (Kazak, Uzbek, Kirghiz) vi segnalo anche l'abbondare di luci e rumori che animano la notte, contro il buio, il silenzio ed il vuoto delle strade che ho percorso sinora; l'asfalto contro lo sterrato; l'abbondare di cibo e di pietanze nei ristoranti contro gli scarni menu fatti di 5 portate. Ci sono anche note negative. Il cielo per esempio: un monotono e triste grigio, in parte dovuto al progresso (lo smog e' prodotto dalle industrie e dalla combustione del carbone per generare energia elettrica) e in parte alla vicinanza del deserto di Taklimakan, dal quale spesso si alzano tempeste di sabbia.
Kashgar e' una citta' di quasi un milione di abitanti, in forte sviluppo. L'enorme statua di Mao e i bianchi palazzi cinesi circondano in una soffocante morsa quello che resta della citta' vecchia, ancora in mano agli Uighuri (la minoranza musulmana) e un tempo fiorente oasi lungo la Via della Seta. Passeggiando per le sue strette stradine, libere da auto e motorini strombazzanti, a volte in quasi completa solitudine, si respira un'aria magica, immobile; l'unico contrattempo che ti puo' capitare e' quello di sbattere contro un bambino che ritorna di corsa da scuola. Molte delle piccole case a due piani mantengono ancora degli antichissimi muri in fango; i patii, celati da una tenda, racchiudono una vita domestica tranquilla: ogni tanto si avverte un rumore di stoviglie, di panni che vengono sciacquati o di ciabatte che strascicano. Un salto indietro nel tempo, rispetto alla chiassosa modernita' dei quartieri cinesi della citta', fatti di palazzoni e di grossi viali trafficati ad ogni ora del giorno e della notte.
Kashgar si anima progressivamente con l'avvicinarsi della domenica, il giorno del gran bazaar, quando la citta' cresce di 50 mila abitanti e sopraggiungono compratori e businessman da tutta l'Asia Centrale e dal Nord del Pakistan, attirati dall' abbondare di merce (stoffe, vestiti, elettrodomestici, frutta, ecc.) e di svaghi (discoteche e bordelli per clientela pakistana). In citta' ci sono vari mercati: molto particolare e' quello degli animali, che si svolge in un' ampia piana odorosa, ai margini dell' abitato, dove scalpitano cammelli, asini, cavalli e pecore e dove il motto "dal produttore al consumatore" e' terribilmente vero e sotto gli occhi di tutti. Gomito a gomito, agricoltori commerciano bestiame e macellai danno di accetta su grossi pezzi di carne (beh, anche lo slogan "sangue e merda" potrebbe descrivere bene il mercato).
Ma torniamo alla Kashgar che luccica, alla citta' dei cinesi, quella dei centri commerciali sotterranei, che si sviluppano per kilometri sotto il viale centrale (il viale del Popolo), senza che ci sia una metropolitana che giustifichi, almeno un poco, questo bunker di negozi. Sono entrato in un gigantesco supermercato: i prodotti occidentali si contano sulle dita di una mano; riconosco il dentrificio Colgate, lo shampoo Pantene, le Pringles e le cicche Wrigley; il resto e' un mondo ignoto e pericoloso: vi andrebbe di assaggiare dei "dried vegeterian meat slices"? Poi c'e' il banco-pesce, freschissimo: le carpe nuotano ancora nell' acquario; scegliete voi quella piu' panzuta.
Passo parecchio tempo con Alex, gigante tedesco di Monaco, 35enne simpatico e bonaccione. Ci ritroviamo alla sera, per andare a mangiare al ristorante cinese (sempre lo stesso!) e per scoppiarci alcune birrette. Alex e' gia' in giro da 11 mesi e si appresta a tornare in Germania. La sera predecente il mercato domenicale ci imbattiamo nell'atrio del nostro albergo in un gruppo di camionisti tagiki. Stanno bevendo intorno a un tavolo e ingurgitano un numero impressionante di spiedini di montone. Ci fanno un cenno di invito e Alex subito si siede. Io addocchio le bottiglie di vodka sul tavolo e un brivido mi percorre la schiena. Qui si mette male, penso. Lascio ad Alex la parola e la conversazione verte subito sul calcio, nazionale tedesca stavolta, Ballack e Oliver Kahn. Jahwohl! Io finisco in fretta la mia birra, rifiuto cortesemente un bicchiere di vodka mimando un crampo allo stomaco e alzo i tacchi. Domenica mattina incrocio Alex: ha dei graffi sulla guancia e un profondo taglio sotto il mento. "Finita in rissa con i tagiki ieri sera?" chiedo. "No, no" risponde "mi sono addormentato sul cesso e sono cascato faccia in avanti sul pavimento. Mi hanno riempito di vodka, dannazione!". Non riesco a trattenere una risata.
Rene'

sabato 1 settembre 2007

Alla frontiera cinese

La notte post taxi-vodka, come vi anticipavo e' stata molto trash. I ciclisti che hanno dormito in tenda all' esterno della casa avranno sicuramente sentito i miei rumorosi conati... Alla mattina loro hanno colazionato presto e si sono rimessi in marcia, mentre io stavo ancora aggrovigliato nel sacco a pelo, incazzato con me stesso e con la testa in frantumi.
Pensavo di spostarmi subito verso la Cina e di passare solo una notte a Sary Tash, ma ho proprio bisogno di ritrovare, prima di tutto, le funzioni corporee base. Il problema principale e' l'assunzione di cibo, che si rivela difficoltosa. Siano essi liquidi o solidi, lo stomaco fatica ad accettarli. Inizio con del the e dei biscotti alle 10 di mattina e poi mi ributto a letto. Verso le 13 passo ad una zuppa di instant noodles. Sono ancora debole. Poi decido di cacciare la testa fuori casa e mi trascino per circa un kilometro verso un punto panoramico e scatto alcune foto all'innevato Pik Lenin (7000 e passa metri) la seconda montagna piu' alta dell' ex URSS (indovinello: come si chiamava invece il monte piu' alto? Rispondete nei commenti, e' facile!). Finisco la giornata a guardare tristemente il mio piatto di plov (riso fritto in grasso di montone con carote bollite): massimo cinque forchettate e sono gia' stufo. Torno nello stanzone: stasera sono solo; niente ciclisti o tassisti a farmi compagnia. Anche Dinara, che mi ha accudito per tutta la giornata, e' triste: no viaggiatori, no money.
Mi sento zozzo. Nello splendido isolamento di Sary Tash non c'e' acqua corrente e non mi lavo da due giorni; a meta' pomeriggio mi hanno dato una scodella di acqua calda, cosi almeno ho sciacquato la faccia. Per non parlare della latrina, terra di nessuno, da frequentare in apnea.
Passa un'altra notte. Spira un vento freddo, ma stanotte non passero' neanche un minuto in giardino. Alle 8 sono pronto, armi e bagagli, a bordo strada, in attesa di un passaggio verso la frontiera cinese, Irkeshtam Pass. Il primo camion Kamaz passa dopo 30 minuti abbondanti: padre e figlio, piu' eventuale spazio per me. La negoziazione e' impari. Io DEVO raggiungere la frontiera e il traffico mi pare talmente scarso che forse e' meglio non attendere una seconda occasione. Sgancio 20 dollari per i 78 km di sassi, buche e sabbia e si parte. La strada e i continui sobbalzi sono un supplizio per il mio stomaco ancora acciaccato, ma resisto. Si viaggia su un altopiano a 3000 m di quota e i panorami sono selvaggi e bellissimi. Un fangoso fiume si snoda come un serpente in un ampia piana e, alla mia destra, i monti innevati del Pamir tagiko.
Ad una media di 25 km/h raggiungiamo in 3 ore il posto di blocco kirghiso. Controllati i documenti, restano ora 7 km di no-man's land fino alla postazione cinese. I kirghisi mi fanno accomodare su un camion per coprire il tragitto. Dopo 5 km il mezzo si accoda alla lunghissima fila di camion che stanno attendendo la riapertura della frontiera cinese (pausa pranzo per loro). Il camionista kirghiso riconosce subito alcuni suoi colleghi e vengo invitato ad un pranzo a base di anguria e pane (inzuppato nel succo dell' anguria); per fortuna non compare dell' alcol!
Attendo quasi due ore sull' asfalto, utilizzando un enorme ruota di camion per proteggermi dal sole; poi il kirghiso mi fa cenno di proseguire, "raggiungi la testa della fila e sali sul primo camion". Alzo lo sguardo; due ripidi tornanti fino all' inizio della fila. Metto in marcia e arrivo ai primi camion: sono tutti cinesi e gli autisti sono raggruppati a chiaccherare. Li saluto e ci scambiamo i passaporti per socializzare. Ben presto si accendono i motori; sono le 16 (ora di Pechino) e la dogana riapre. Mi giro un' ultima volta e saluto il Kirgizstan, il paese dei cavalli e delle montagne, delle yurte e delle latrine, dei pascoli e delle deliziose marmellate.
Copro l'ultimo km sul primo camion e poi sono al primo posto di blocco. Rapida ispezione dello zaino da parte di alcuni militari poco piu' che diciottenni e poi riparto per un altro pezzetto di strada, stavolta in auto, verso la dogana vera e propria. Vengo registrato, uno stampo sul passaporto e seconda ispezione. Un doganiere donna, molto giovane anche lei, mi chiede se ho dei libri, "wow, si interessa di cultura" penso. Apro lo zaino e il primo libro che spunta e' la Lonely Planet China. Lo prende in mano e lo sfoglia piu' volte; all' interno ci sono ancora i biglietti di alcuni siti turistici che ho visitato l'anno scorso. Sorride e mi dice che la guida e' confiscata. Come? Confiscata? Ma se l'ho usata lo scorso anno, cerco di spiegarle. Le faccio inoltre presente che il libro e' molto importante perche' ci sono i nomi delle citta' e delle vie in caratteri cinese, indispensabili per spostarsi con i mezzi pubblici. Niente da fare. In un inglese approssimativo mi spiega che sulla mappa, sul dorso della guida, l'isola di Taiwan non fa parte dei confini cinesi e questo e' un errore, perche', secondo Pechino, Taiwan fa parte della Cina. Il libro e' illegale. Cerco una ultima protesta ma vengo definitivamente stoppato da un ufficiale di rango superiore. Mi viene concesso di trattenere una pagina del libro e strappo quindi la mappa di Kashgar, la mia prossima destinazione. Rifiuto di firmare una dichiarazione scritta solo in caratteri cinesi e abbandono sconsolato la dogana. Bell' inizio, dannazione!
Salgo sull' auto del primo tassista che mi viene incontro e ci accordiamo per 30 dollari fino a Kashgar. Sono 280 km in mezzo a terreni brulli, assenza di vegetazione, aspre formazioni rocciose e alcuni pigri cammelli, ma siamo in Cina, il paese del futuro, e la strada e' asfaltata! Se sul lato kirghiso ho impiegato 3 ore per fare 80 km, qui ne impiego ancora 3 ma copro oltre il triplo della distanza.
Arrivo a Kashgar all' imbrunire. La remota frontiera occidentale della Cina mi accoglie con un cielo grigio e polveroso, un' aria pesante, un continuo strombazzare di clacson e abbaglianti luci al neon. La differenza rispetto al resto dell' Asia Centrale e' chiaramente percepibile.
Rene'