martedì 30 ottobre 2007

La terra dei Re (1)

Terra dei Re, e' questo il significa di Rajastan, una regione arida e spettacolare che racchiude ed evoca ad ogni passo lo sfarzo e i fasti dei Maharaja.
Bikaner e' la prima citta' che visito, ai margini nord orientali del Gran Deserto di Thar, il torrido confine naturale che separa India e Pakistan. E' forse la destinazione meno turistica del Rajastan; c'e' un bel forte e una citta' vecchia con edifici storici, ringhiosi cani randagi e carri trainati da cammelli. L'attrazione principale si trova pero' una decina di km fuori dal centro: e' il Karni Matha, il tempio dei topi. Qui una antica leggenda vuole che i roditori siano una incarnazione di cantastorie e che quindi siano considerati sacri e venerati. Gli animali affollano il cortile del tempio e si abbeverano intorno a grosse scodelle contenenti latte, offerte dai devoti. E' segno di buon auspicio se, nel corso della visita, si avvista un topo bianco. A me non e' capitato: ero piu' occupato a cercare di evitare i roditori e le cacche di piccione (nel tempio si entra a piedi nudi).
Mi lascio alle spalle Deshnok e il Karni Matha per puntare in direzione sud-ovest: mi addentro ulteriormente nel deserto e raggiungo Jailsamer. La citta' una piccola e incantevole gemma dorata, incastonata in cima ad uno scoglio roccioso che spicca solitario in mezzo al terreno arido e brullo. Ogni casa a Jailsamer ha un tetto piatto che e' perfetto per addentrarsi con lo sguardo nel vasto spazio desertico. Solo ogni tanto la tranquillita' del posto e' rotta dal boato di un jet supersonico che pattuglia il vicino confine con il Pakistan. Anche se la cittadella si e' ormai sposata alle esigenze turistiche - il numero di ristoranti e alberghi e' ben al di sopra delle reali necessita' - e di giorno e' sul punto di soffocare, stretta nella morsa di turisti, negozianti e guide, e' alla sera che regala sensazioni magiche, quando le luci si spengono e le voci e i rumori si dissolvono lasciando il posto alla serena, silenziosa e fresca notte desertica.
A Jailsamer vengo colpito dal richiamo dell'avventura e ben presto mi trovo a dorso di un cammello a trottare in mezzo al deserto. La caravana e' composta, oltre che da me, da una giovane coppia di coreani e da una coppia di spagnoli. Rispetto al cavallo, il cammello ha una andatura dal ritmo piu' lungo e dolce e si e' seduti ad una altezza maggiore sul terreno. Il primo giorno cavalchiamo per circa 5 ore in mezzo a una vegetazione composta da arbusti spinosi, qualche albero e roccia intervallata a fili d'erba affilata. Il sole picchia duro e mi costringe ad abbeverarmi spesso dalla borraccia: l'acqua e' diventata presto calda come un the! Verso mezzogiorno l'ombra di un grosso albero ci accoglie come un oasi; stendo un tappeto e dopo essermi sgranchito gambe e sedere casco in un piacevole sonnellino. Il pranzo, considerato il fatto che siamo in mezzo ad un deserto, e' molto buono: patatine fritte, curry di verdure, riso e chapatis; niente male. Mi torna in mente l'escursione in cavallo in Kyrgyzstan quando i pasti erano costituiti da pane raffermo, yoghurt e zuppe di montone... Decisamente tutta un'altra storia!
L'aria e' molto calda e secca ma all'ombra si sta bene e spira una leggera brezza. Dopo il pranzo mi addormento nuovamente; sto diventando un indolente orientale, sempre seduto o sdraiato da qualche parte.
Per fortuna non sono partito con l'idea di navigare in un mare di sabbia. Di dune ce ne sono poche; ogni tanto se ne avvista un gruppetto isolato, che si alza dal terreno roccioso. E' tardo pomeriggio quando scorgiamo la nosta isola di sabbia. I cammelli vi si dirigono al trotto e danno il colpo di grazia a sederi poco abituati alla marcia. Carlos e Maria (gli spagnoli) alzano bandiera bianca e rinunciano al secondo giorno di escursione; domani mattina faranno solo un'ora a dorso di cammello per poi tornare in jeep a Jailsamer. Io e i coreani invece decidiamo di concludere l'escursione come da programma.
In silenzio, in cima a una duna, assistiamo alla sfera dorata del sole che si inabissa dinanzi ai nostri occhi tingendo l’orizzonte di un arancione intenso. Accolgo la sera e la frescura della notte con gran piacere, dopo avere passato quasi un'intero giorno sotto un sole spietato. Non fa freddo e mi appresto a dormire tranquillo raggomitolato nel mio sacco a pelo, sul giaciglio (uno strato di tappeti) preparatomi dalla guida. Poco distante, giunge di tanto in tanto un gridolino da parte della coppia coreana, ancora intenta a contare le stelle cadenti.
Svegliatomi alla mattina capisco subito di non avere dormito da solo: intorno al mio tappeto ci sono decine di sottili traccie. Sono gli scarabei che questa notte devono essere stati particolarmente attivi. Ad alcuni metri di distanza ne scorgo alcuni intenti a combattere per una pallina di sterco di cammello piu' grossa di loro!
La seconda gironata si rivela abbastanza monotona: il panorama e' un costante susseguirsi di roccie e arbusti, per nulla spettacolare; l'andatura del cammello e il sole cocente mi rimbambiscono. Passiamo sette ore interminabili e il sollievo e' grande quando, nel pomeriggio, avvistiamo la jeep che ci riportera' a Jailsamer. Fine della gran carovana desertica.
Di ritorno in citta' compio subito il passo successivo e con un bus notturno mi sposto a Jodhpur, la Citta' Blu, dove piombo ancor prima delle luci dell'alba. Scelgo a caso un hotel dalla guida e mi ci dirigo su un auto-rickshaw. E' buio e le strade del centro sono deserte. Per fortuna il tassista sa il fatto suo e mi conduce sicuro a destinazione. Sbrandiamo il proprietario della Blue House Guesthouse: alle cinque di mattina ritrovo finalmente un soffice e piacevole materasso.
Rene'

giovedì 25 ottobre 2007

Un inizio agrodolce

L'ultima immagine che conservo del Pakistan e' quella della cerimonia di chiusura del confine con l'India: soldati enormi, alti anche 2 metri, imbellettati e vestiti di nero che marciano ad ampi passi verso il confine indiano, alzando le gambe in modo innaturale e pestando violentemente i piedi; il suono generato accentuato dalla presenza di una placca metallica sotto la suola degli stivali! Gli indiani, dall' altro lato del confine, fanno altrettanto. I soldati dei due Paesi, arrivati in marcia fino al cancello che li divide, si fermano a pochi centimetri l'uno dall'altro, quasi si toccano, si guardano ferocemente negli occhi e gonfiano il petto. La folla, accorsa numerosa ad assistere allo spettacolo, incita con cori e batte le mani. Lungo la strada, sia sul versante indiano che su quello pakistano, sono state allestite delle tribune; sembra di essere allo stadio. La parte indiana vince in quanto a pubblico, folklore e rumore. In Pakistan invece, forse a causa del Ramadan, la presenza e' ridotta, ma non meno fiera e genuinamente nazionalista. La cerimonia termina con l'ammainamento della bandiera e la chiusura, violenta, della cancellata. Ogni giorno lo spettacolo si ripete, a mantenere viva la rivalita' tra i due Paesi.
Come dicevo, questa e' l'ultima immagine che conservo del Pakistan, ultima in ogni senso perche' appena entrato in India, nel corso del secondo giorno di permanenza, mi hanno rubato la macchina la fotografica; e questo proprio durante la cerimonia di chiusura del confine, che stavo guardando sul lato indiano! (Volevo fare il gioco "scopri le differenze" tra le due cerimonie...)
Nello spingi spingi per accaparrarsi le posizioni migliori sulle tribune qualcuno mi ha sfilato la macchina dall'astuccio che tenevo a tracolla. Porca miseria, non avevo ancora salvato nessuna fotografia del Pakistan; son tutte perse! Tranne che nella mia memory card cerebrale...
E' un brutto colpo, che condiziona i miei primi giorni in India, rendendomi diffidente e nervoso. Peccato, perche' Amritsar e' un posto particolare. La citta' si trova ad una trentina di km dal confine pakistano ed e' il maggiore centro religioso dei Sikh, gli indiani con il turbante, per interderci. Qui vengono in pellegrinaggio al Golden Temple, un bellissimo edifico, molto grande, di un bianco accecante, che al suo interno ospita un lago rettangolare; al centro di quest'ultimo, si trova una struttura interamente dorata dove i Sikh, giunti dall'India e da ogni angolo del mondo, convergono a venerare il loro testo sacro. Il tempio e' aperto giorno e notte e gli altoparlanti trasmettono incessantemente canzoni e salmi. I pellegrini si immergono nelle acque sacre del lago o pregano lungo le sue sponde. Nonostante sia molto affollato, sia di giorno che di notte, il luogo trasmette una sensazione di armonia e tranquillita' ed e' piacevole passare il tempo seduti per terra ad ammirare la folla.
Per due giorni ho alloggiato nelle strutture del tempio che dispone di tre edifici che funzionano da ostello per i pellegrini. Il via vai e' costante e colorato. Uno dei palazzi ha al piano terra una stanza dormitorio per gli ospiti stranieri. E' quasi sempre piena di travellers che, come me, vengono ad ammirare questo luogo magico. La sistemazione e' veramente basic, un mini materasso consumato dal tempo posto su una tavola di legno, ma in compenso vitto e alloggio sono a spese del tempio (si accettano donazioni!). All'esterno del nostro stanzone, nel cortile dell'edificio, dormono avvolti nelle coperte i pellegrini che non sono riusciti a trovare posto in una camera; sono tantissimi e occupano quasi tutta la superficie calpestabile.
Un giorno sono stato a pranzo nella mensa del tempio; disposti su lunghe file, si mangia seduti per terra, gambe incrociate e gomito a gomito. Il menu' e' semplice: prevede una zuppa di lenticchie, una pappa dolce di colore gialla, dolciastra (forse a base di legumi) e le immancabili piadine (chapatis). Anche la mensa lavora su 24 ore e c'e' sempre tantissima gente da sfamare, oltre 100mila pasti al giorno, si dice. Subito all'esterno dell'edificio si avverte il rumore metallico, quasi assordante, delle centinaia di volontari che lavano le stoviglie.
Il tempio dorato e' stato il guscio protettore dei miei primi giorni in India: ne ha attutito il caos delle strade, i contrasti, le contraddizioni, i rumori e la sporcizia. Avremo tempo per approfondire tutti questi aspetti!
Dopo Amritsar e il suo splendido tempio mi si prospetta ora il Grand Tour del Rajastan, la destinazione (e provincia) piu' turistica dell'India.

Rene'

lunedì 22 ottobre 2007

Lahore madness

Lahore: un agglomerato ben oltre i 5 milioni di abitanti, seconda citta' piu' grande del Pakistan e capitale culturale del Paese. Ho il visto per l'India in tasca, ritirato all'ambasciata di Islamabad, la capitale costruita a tavolino 40 anni fa: una strana composizione urbanistica di quartieri, disposti e denominati come le caselle della battaglia navale (F7 piuttosto che G9). Aree urbane quadrate o rettangolari che si sviluppano intorno a un bazaar o shopping mall, collegate tra loro da strade a multi-corsia. C'e' molto verde, sia all'interno delle "isole" abitate che tra i quartieri, ma e' una natura fuori controllo, non curata. Lande con erba alta un metro, arbusti e boschetti impenetrabili, come l'enclave diplomatica (quartiere G9, quello delle ambasciate) accessibile solo con un servizio bus navetta, dopo avere superato i rigidi controlli che si effettuano nell'apposita area di raccolta. Se la citta' e' stata progettata per essere il fiore all'occhiello del Pakistan per ora l'effetto e' quello di un biglietto da visita stropicciato. La superficie cittadina e' troppo vasta e scoraggia pure la visita all'unica attrazione turistica della capitale: l'enorme moschea dai minareti a forma di missile. Ma torniamo a Lahore...
Grazie a delle connections paterne alloggio all' Holiday Inn, uno dei migliori alberghi della citta', a spese di una industria tessile locale. Mi godo il lusso inaspettato: lettone, aria condizionata, doccia con acqua bollente, tv via cavo, wireless internet e piscina sul tetto dell'edificio. Quest'ultima utilizzata, penso, unicamente da me, alla faccia delle rigide tradizioni locali in tema di abbigliamento (non ho mai visto un pakistano a petto nudo in pubblico). La mia stanza, perfettamente insonorizzata, e' la migliore via di fuga al caldo afoso della citta', allo smog, al rumore e al traffico.
Lahore non ha certamente il fascino che ti puo' dare una passeggiata nel centro storico di Peshawar; possiede tuttavia almeno due edifici degni di nota, nobili e maestosi. Il primo e' la Grande Moschea, datata 1600, che, all' interno del suo perimetro, puo' ospitare fino a 10.000 persone in preghiera. L'illuminazione notturna del monumento lascia a bocca aperta e ne enfatizza le dimensioni spropositate. Il secondo e' il Forte che, per costruzione e architettura, e' una piacevole anticipazione di quello che vedro' in India.
Il culmine di una visita a Lahore si tocca nella giornata di giovedi quando la citta' vive due vivaci eventi di natura religiosa. Al pomeriggio, all'interno di un mausoleo, gruppi musicali giunti da tutto il Pakistan esibiscono il loro repertorio di canzoni islamiche mentre alla sera il centro dell'azione si sposta allo Shah Jamal, un altro luogo di culto.
L'ostello piu' famoso di Lahore, il Regale Internet Inn (nome curioso), organizza escursioni a entrambi gli eventi, con una guida locale, assolutamente necessaria perche', andando da soli, ci si sentirebbe senz'altro "fuori posto". Pur alloggiando all' Holiday Inn ho fatto spesso visita al Regale Inn, una vera oasi nel deserto (non ci sono infatti altri ostelli a Lahore), dove ho rincontrato Ben e Jessica (quelli dell' escursione al Khyber Pass), Mirko (il viaggiatore tedesco fricchettone conosciuto nel Nord del Paese) e una serie di altre faccie che avevo gia' visto in passato.
Giovedi ore 22, quindi. Un gruppo di una quindicina di persone, me compreso, parte alla volta dello Shah Jamal, per quella che in città e' conosciuta in come la "Sufi Night". I nostri apecar dribblano il traffico e sfrecciano veloci lungo le strade; si addentrano in quello che pare essere un quartiere residenziale; sensazione presto dissipata dalla folla che ci si para davanti, impedendo il passaggio ai mezzi. Malik, la nostra guida, ci fa depositare tutte le scarpe all'interno di un sacco per la spazzatura e ci accompagna all'interno del tempio. Abbiamo una piccola zona riservata: due fila di gradini, sotto ad un altare di pietra. Di fronte a noi un cortile non piu' grande di 100 metri quadrati, chiuso su tre lati da altri edifici e con il lato aperto sorvegliato da un albero secolare. Il clima si sta surriscaldando. Due musicisti con enormi tamburi appesi al collo producono suoni profondi e ipnotici. Lo spazio calpestabile del cortile e' interamente occupato da ragazzi e uomini accovacciati (niente donne) che muovono ritmicamente la testa e rilasciano nell'aria bianchi nuvoloni di fumo. Alcuni di loro hanno le mani chiuse a pugno e stringono fino a cinque sigarette, che hanno precedentemente svuotato con maestria e riempito nuovamente con una mistura di tabacco e hashish. Balzano incerti tra la folla offrendo il pugno fumante a destra e a sinistra. Il calore dei corpi ammassati - non c'e' più posto per uno spillo - rende l'aria umida e pesante; ogni tanto viene rinfrescata da spruzzate di acqua profumata alla rosa, vaporizzate da alcuni inservienti che si aggirano, in precario equilibrio, tra la folla. I musicisti, chini sui tamburi, sudati, producono un frastuono assordante; devono avere in corpo una energia sopranaturale perche' non si sono ancora fermati un attimo. La folla rumoreggia quando apprezza un cambio di ritmo e si scalda quando la cadenza inizia a diventare frenetica.
Tra gli "ospiti" stranieri inizia una gara di resistenza. Compressi sui nostri gradini, cominciamo ad avvertire noiosi dolori alle gambe e al sedere. Chi cede si alza e si allontana dal cortile, in cerca di angoli piu' tranquilli.
La situazione musicale si protrae così per quasi due ore fino a una pausa, necessaria per riposare gli artisti e per ricavare uno spazio libero all'interno del cortile. E' ben oltre mezzanotte quando entrano in scena i Sufi: 10 personaggi con una vivace vestaglia rossa e dai lunghi capelli. Tra di loro c'e' anche un ragazzino, dalla pelle scura e con il cranio rasato, che porta unicamente un paio di pantaloncini e ha appeso lungo le gambe e intorno al petto una serie di campane. La cosa fa una certa impressione. Il duo musicale inizia un lento crescendo, martellante e avvolgente. I Sufi iniziano a muovere freneticamente la testa, auto-provocando lo stato di trance. Il ragazzino danza seguendo il ritmo e lo amplifica grazie al suono delle campane. Uno dopo l'altro i Sufi iniziano a roteare, acclamati dal pubblico, che li segue estasiati. Sembrano indiavolati, posseduti. Girano vorticosamente, veloci come trottole, ma nessuno di loro cade. E' incredibile.
Lo spettacolo ha una dimensione irreale, fantastica. Mai visto nulla del genere in passato.
La gente continua a fumare imperterrito; "deve essere la versione pakistana dello sballo", penso. Sono quasi le due di notte e non si ha la sensazione che il rito stia per terminare. Le nostre faccie ormai non nascondono piu' la sofferenza di una posizione a gambe incrociate mantenuta oltre tre ore. Ci alziamo quasi all'unisono e ritorniamo, stanchi, impressionati e taluni rintronati, all'ostello, mentre i mistici Sufi ancora girano, girano, girano...
Rene'

lunedì 15 ottobre 2007

Il principe di Peshawar

No no, non sono io. Il vero principe e' solo Mahir Ullah Khan, da tutti universalmente conosciuto come Prince. A Peshwar deve essere una specie di istituzione. Possiede due negozi, una agenzia di viaggi, e' editore di un giornale e organizza intrepide escursioni. Difficile che un turista, una volta arrivato a Peshwar, non si imbatta in questo personaggio. Un vero clown, istrionico e quasi macchietta, quando si ostina a portare a tracolla una spada argentata, simbolo di famiglia e suo grande motivo di orgoglio. Peshwar e' il posto perfetto per un tipo come Prince e per il viaggiatore in cerca del brivido: ai confini con le aree tribali e l'Afghanistan, terra di briganti e rivoltosi che non esitano a fare la voce grossa contro i provvedimenti imposti dal governo centrale di Islamabad. Si possono visitare fabbriche di armi, dove vengono prodotte repliche di tutte i piu' famosi fucili e pistole; il bazaar dei contrabbandieri (Smugglers Bazaar) dove, oltre a vestiti, elettrodomestici e giocattoli, si scambia oppio proveniente dall' Afghanistan con munizioni di produzione pakistana; i campi profughi afghani; lo storico Khyber Pass; e, volendo, si puo' fare una capatina a Kabul, distante meno di 300km (il consolato afgano rilascia i visti in giornata). Organizza tutto Prince, ovviamente.
L'escursione al Khyber Pass e' nei miei piani; non resta altro che trovare i compagni di viaggio con i quali noleggiare un auto e coprire gli 80km fino al passo e al confine con l'Afghanistan. Il luogo e' storicamente significativo: famosi condottieri ed eserciti sono passati di qui: Alessandro Magno, Tamerlano, gli inglesi, che per ben due volte hanno tentato invano di occupare il territorio afgano. Visto che allo Shan Hotel, dove alloggio, sono l'unico straniero in mezzo a una schiera di pakistani, vado a fare un giro al Rose Hotel, che ospita i pochi travellers che si sono avventurati in questa citta', spesso descritta dai media occidentali come un vulcano sempre sul punto di esplodere. Li incontro Prince che in men che non si dica mette insieme un gruppetto di 3 persone (io piu' Jessica e Ben, entrambi australiani) e fissa l'escursione per l'indomani.
La mattina seguente scopriamo che c'e' un iter burocratico ben preciso da seguire che prevede il rilascio di un permesso di transito nelle aree tribali e l'assegnazione di una scorta armata. Prince ci aiuta a sbrigare le formalita' negli uffici di competenza e ben presto partiamo su un' auto sovraffollata. Noi 3 turisti nel posteriore; Prince davanti con la guardia armata sulle gambe!
Al check post di polizia, che segna l'ingresso nelle aree tribali, dove viene controllato il nostro permesso, percepiamo un certo brivido, come quando si sta per compiere un atto proibito. Siamo tutti un po' emozionati.
La strada di montagna verso il Khyber Pass e' scenica e molte sono le testimonianze storiche lungo il percorso. Prince non sta zitto un attimo e ci assilla con le sue proposte: "Rene' vuoi sparare? Quanti proiettili? Tranquillo non c'e' problema". "Prince", rispondo, "non ho mai usato un fucile in vita mia e non penso proprio di iniziare l'attivita' sparando per aria lungo una strada verso l'Afghanistan!".
Ci fermiamo alcune volte lungo il percorso per scattare delle foto, anche insieme alla nostra guardia armata; Prince non esita ad ammonirci di non abbandonare assolutamente la strada asfaltata perche' oltre la carreggiata lui non ci puo' proteggere: e' zona tribale vietata. L'ultima localita' che riusciamo a raggiungere prima dell'Afghanistan e' il Michni Checkpost, bastione e punto di osservazione dell' esercito pakistano, eretto su una sporgenza naturale del terreno. Da qui Kabul dovrebbe distare circa 200 km. Non nascondo di avere avuto l'insana idea di farci una puntata: dopotutto sembra essere cosi facile da raggiungere e, dal confine, si ha la sensazione di percepire le vibrazioni della citta'. Proposito subito accantonato. Non dimentico che c'e' una guerra in corso e la zona non e' per niente sicura.
La veduta dal checkpost e' splendida. Sotto di noi si snodano gli ultimi tornanti del passo, che terminano in un'ampia aria di sosta, invasa da camion e autoarticolati. Mi aggrappo a una balconata e con lo sguardo seguo le colline di fronte a me; su alcune cime, avvisto altre postazioni di guardia dell' esercito. Ogni collina ha un grosso numero dipinto sul pendio; ne conto almeno quattro. Al centro, in mezzo alla vallata, si trova l'animata dogana, con centinaia di automezzi in attesa del varco su entrambi i lati. Oltre la prima di linea di colline scorgo squarci di territorio afgano e cerco di immaginare come deve essere la vita, in questo preciso momento, a Jalalabat o a Kabul.
Un caldo vento mi sta ancora sferzando il viso quando Prince termina l'elenco dei condottieri che hanno attraversato il passo e ci ricorda che e' giunto il momento di tornare a Peshawar. Lungo il tragitto di ritorno io, Ben e Jess cadiamo in un sonno catatonico, forse soppraffatti dal numero di pensieri che hanno affollato le nostre teste in questa breve escursione o piu' semplicemente perche' cullati dalla ritmica alternanza dei dolci tornanti del Khyber Pass.
Restero' a Peshawar ancora per un paio di giorni, cercando di scoprire le ingarbugliate trame dell' animatissimo centro storico. Un dedalo di strette e tortuose vie, storici palazzi dall'aspetto semi-abbandonato, uomini indaffarati e donne nascoste dietro i burqa, negozi, moschee, ronzanti ape-car e carretti di legno: colori, odori, sporcizia. Quasi immedesimandomi con la folla, attraverso a zigo zago la citta', ma, anche se vesto una celeste combinazione di pantalone e tunica (fatta fare su misura a Islamabad) sono pur sempre uno "straniero" e, se non fosse per il Ramadan, avrei passato sicuramente un sacco di tempo a sorseggiare the', magari all'interno di un negozio di spezie, raccontando a curiosi occhi pakistani la storia del mio viaggio.
Rene'

martedì 9 ottobre 2007

Sulle strade verso Islamabad

Torno a Gilgit, l'epicentro della KKH e rifletto sul da farsi. Ho ancora voglia di montagna e di escursioni e il campo base del Nanga Parbat (8126m seconda montagna piu' alta del Pakistan) e' a un tiro di schioppo. Mi avventuro quindi verso Tarashing, dove inizia il trek, lungo una strada ancora piu' spettacolare di quelle che ho percorso sinora. Immaginate una stretto canyon, dai fianchi alti centinaia di metri, ripidi e scoscesi, e, a mezza altezza, attaccata a una parete, una strada sterrata larga quanto un auto e mezzo. Da brivido. Mentre il minibus sfida le leggi di gravita' io decido che e' meglio dormire e mi assopisco, svegliandomi ogni qual volta la mia testa va a sbattere contro il finestrino.
Tarashing, a 2900m di quota, si trova all'imbocco di una valle verde e pianeggiante, punteggiata da campi e piccoli villaggi. E' un posto idilliaco e tranquillo all'ombra del temibile Nanga Parbat - la montagna nuda - ribattezzata poi The Killer Mountain per l'alto numero di alpinisti deceduti lungo le sue pareti. Con una facile passeggiata di 4 ore raggiungo con la mia guida il campo base a 3600m. Stavolta, al contrario del K2 trek, si dorme in tenda ed e' una notte serena, interrotta solo dai boati delle valanghe che si staccano dalla Rupal Face, l'impressionante parete verticale che dal campo base si allunga per oltre 4000m fino alla vetta: sogno, e allo stesso tempo incubo, di ogni alpinista.
L'indomani ritorno sui miei passi e dopo una notte di relax a Tarashing mi imbarco su un autobus diretto a Islamabad, la capitale del Pakistan. Un faticoso trasferimento di 19 ore giustificato dal fatto di poter arrivare nella capitale in un giorno feriale (venerdi) per cosi depositare il passaporto alla ambasciata indiana per il visto, salvo poi scoprire che l'ambasciata indiana e' chiusa di venerdi... Il viaggio risulta disagevole per una serie di motivi:
A) la durata, con effetti anestetici su gambe e sedere.
B) le soste, imposte dal ritmo del Ramadan. Soste per pregare; poi una lunga pausa di 1 ora al calare del sole per permettere a tutti di mangiare; infine, frequenti stop ai posti di controllo della polizia dove ogni volta dovevo registrare il mio passaggio.
C) la strada, per tre quarti del viaggio costituita da una carreggiata di montagna che, percorsa di notte, provoca sensazioni abbastanza angoscianti.
D) gli autisti, impegnati in un cannonball notturno con gli altri pullman e minibus: vince chi fa il sorpasso piu' azzardato. Ad un certo punto becchiamo una buca e il bus inizia a saltare sugli ammortizzatori come una pallina magica, prima a destra e poi a sinistra, sfiorando pericolosamente il bordo della strada e il relativo burrone, con i pakistani che urlano "Allah! Allah!". Solo alcuni secondi, un lasso di tempo troppo breve per spaventarsi, ma che condizionano il resto del viaggio. Nella mia testa scorre il ritornello "A-u-tista esempio di virtu', pero' sta' attent' ai curve se no..."
E) da ultimo, il clacson, che produce un rumore assordante tanto all'esterno quanto all'interno del pullman e che mi fa sobbalzare, svegliandomi dal mio gia' fragile sonno.
Mi soffermo ancora un po' a raccontarvi come si viaggia sulle strade pakistane.
In montagna si circola su minibus da 15 posti, e, se la strada e' sterrata, su vecchie jeep Toyota Defender, modello lungo, con due file di posti orizzontali, alle spalle dell' autista, e due panche una in fronte all'altra sul retro. Si puo' anche viaggiare appollaiati sul tetto o aggrappati lungo le pareti, fino a esaurimento forze. I pullman piu' grandi vengono utilizzati solo per il viaggio fino a Islamabad.
In pianura invece si viaggia spesso sui pullman, che collegano le grosse citta' e la qualita' del viaggio e' strettamente legata al prezzo del biglietto. Ho viaggiato su dei pullman Daewoo (cari) con aria condizionata, televisione, cuffie audio, snacks, sedili comodi e tempi di partenza, percorrenza e arrivo fissi e rispettati (insciallah... come dice sempre la hostess del bus: arriveremo a X alle ore XX.XX, insciallah, se dio vuole); e mi sono spostato sui bus Niazi Express (piu' economici), che si fermano se hai bisogno di scendere in un posto particolare lungo il tragitto e dove la tv trasmette ad alto volume una specie di conferenza dove un imam, di fronte ad un pubblico, risponde alle domande poste in sala (sono riuscito a cogliere solo alcune parole come american, hindu, pakistan, terrorist...); una continua battaglia sonora tra il volume del mio ipod e la voce dell'imam.
Come già accennavo i pullman si fermano lungo la strada in aree di soste attrezzate con ristorante e moschea per permettere ai passeggeri di ritemprare corpo e spirito.
All' interno dei centri abitati il trasporto pubblico è garantito da dei piccoli pick up; nel vano destinato alle merci vengono disposte due panche in parallelo e lo spazio e' "telonato". Non c'e' un vero limite al numero di passeggeri trasportabili. I ragazzini rincorrono i pick-up (Suzuki) e si aggrappano urlando ai fianchi dei mezzi in corsa. Un' altra possibilita', sostitutiva del taxi e' costituita dall'ape Piaggio (auto-rickshaw). Lahore, capitale culturale del Pakistan, ai confini con l'India, ne e' letteralmente infestata. I tricicli sono alimentati a gas e creano dei nuvoloni di smog che rendono irrespirabile l'aria delle strette viuzze del centro storico. Sul retro dell'ape spesso e' dipinto un guerriero alla Rambo con la faccia sanguinante che brandisce un coltello o impugna un mitra. Pronto per la giungla metropolitana.
Il trasporto merci è affidato a camion modello Bedford dalle fiancate dipinte in colori vivaci, con motivi floreali e scritte in arabo. Le portiere spesso sono in legno, finemente inciso, e l'abitacolo pare un soggiorno barocco, il posto di guida una poltrona, intorno a un trionfo di ciondoli, drappi e amuleti. La cabina di guida e' dipinta come il resto del camion e lungo i bordi vengono fissate delle strisce di luci colorate mentre dal parafango pendono una serie di catene dotate di campanellino. Di notte, l'effetto e' quello di un albero di natale mobile con tanto di musica, prodotta dalle catenelle. Affascinante.
In Pakistan circolano solo auto giapponesi: Honda, Toyota, Suzuki, Daewoo - modelli mai visti in Italia - e una infinita' di motociclette Hero e Honda, ben contrastate dai vespai di ape Piaggio nelle citta'. Fate attenzione agli attraversamenti pedonali!

Rene'

giovedì 4 ottobre 2007

Il loro pane quotidiano

Al ritorno dai 3 giorni di trekking sono stanco: ho bisogno di riposo e di qualcosa di decente sotto i denti. Gia', il cibo... In Pakistan il menu non e' molto vario. I piatti principali sono a base di carne di montone, di manzo oppure di pollo. La carne viene sminuzzata e condita con salse speziate (curry) che dopo alcuni giorni hanno tutte, sempre, lo stesso identico sapore. Come contorno vengono servite delle piadine calde, appena sfornate, chiamate chapati. Non male, ma anche in questo caso, il troppo stroppia. La piadina viene utilizzata come "forchetta" nel senso che se ne prende un pezzo tra le dita e poi si va alla caccia, nel piatto, della carne e del sugo. Qualora non si volesse mangiare la carne, e' possibile ripiegare su un piatto di lenticchie (dhal) oppure di ceci, sempre accompagnato dalle chapati. Nei piccoli paesi il cibo e' quello che vi ho appena descritto; non ci scappi. Nelle citta' invece si cucina anche alla griglia, utilizzando degli spiedi dove vengono infilati i pezzi di montone, di pollo o la trita di carne.
L'alternativa al ristorante è la bottega dove si può comprare della frutta (banane, pere, uva, mele) e sperare che non parta un attacco di diarrea. E per colazione si va di the con biscotti e cornflakes, da alternare alle frittate.
Fattore comune dei piatti pakistani è l'abbondante uso di olio, che costringe talvolta a inclinare il piatto in modo da fare un drenaggio del liquido in eccesso. Circa l'utilizzo dell' olio (di semi), venduto nei negozi in barilotti da almeno 3 litri, fa fede la visione della pubblicita' della marca Sufi, dove una splendida ragazza versa l'olio in una padella direttamente dal barilotto; poi l'immagine si ferma su una tavolata felice, sullo stile "dove c'e' Barilla c'e' casa". Yum!
Bevande: come sapete, il Pakistan e' un paese musulmano, quindi niente alcol. Sto bevendo la Coca con lo stesso piacere con il quale berrei una birra a casa... Poi c'e' il the, presente ad ogni ora del giorno, che qui viene bevuto con aggiunta di latte.
Concluso il trekking, il 14 settembre, come un fulmine a ciel sereno, inizia il mese del Ramadan (Ramzan). E chi lo sapeva? La cosa mi coglie completamente alla sprovvista. La quaresima dei musulmani. Qui la gente digiuna veramente. Ancora una volta si avverte la differenza tra paese e citta'. Nei piccoli centri, ristoranti sono chiusi e solo il 10% delle botteghe è aperto; nelle citta' invece, i negozi sono quasi tutti aperti e i ristoranti aprono verso il tardo pomeriggio. Per strada ci sono molte bancarelle di frutta e degli stand dove vengono fritti (olio, olio, olio!) degli involtini di pollo, pezzi di pesce, hamburger di montone, bomboloni ripieni di carne speziata e verdure in pastella (patate, peperoncini e persino cipolle intere). All' imbrunire, l'ora X (Iftar) dopo la quale e' permesso mangiare, si trasforma in un evento sociale di massa. La bancarelle vengono prese d'assalto da una folla quasi isterica. Sui marciapiedi di fronte ai ristoranti vengono stesi dei tappetti dove la gente, seduta, consuma il pasto. Chi riesce raggiunge casa, gli altri si accomodano in strada e iniziano a mangiare il cibo appena acquistato.
Nelle citta' si assiste ad un vero e proprio ciclo del cibo: verso le 18 il digiuno viene interrotto dagli snack fritti; poi a partire dalla 21 si allesticono i bbq sui marciapiedi e vai di spiedino; a mezzanotte, tutti in gelateria. Quindi ci si riposa e alle 4 scatta la sveglia per fare un pasto prima dell'alba.
Noi turisti "infedeli", se abbiamo fame durante il giorno, ci confiniamo nelle stanze degli alberghi e consumiamo li degli spuntini. Io ho fatto scorpacciate di banane e ho provato ormai ogni sorta di biscotto sul mercato.
Qualche giorno fa sono felicemente riuscito a porre un freno alla mia crescente insofferenza verso il cibo pakistano quando, nella cucina del camper di Freddy e Laure (i francesi che avevo incontrato in Kazakistan, poi rivisto in Kyrgyzstan e ora in Pakistan!) ho cucinato una piatto di pasta al ragu', tutto made in italy: penne Spiga d'Oro, pelati Mara dalla Campania, olio d'oliva toscano; solo la carne trita era pakistana! La mia prima pasta dopo oltre due mesi... Son soddisfazioni.

Rene'

lunedì 1 ottobre 2007

Dove osano le aquile (2)

Mi sono messo in testa che devo assolutamente vedere il K2; dopotutto sono nella regione del Baltisan, il regno degli scalatori!
La prima cosa da fare e' avvicinarsi il piu' possibile al monte. Mi sposto quindi a Khaplu, 3 ore di minibus da Skardu in direzione est. Come al solito viaggio compresso come una sardina, ginocchia al petto e sedere dolorante.
Il villaggio di Khaplu, per gli stranieri, e' "end of the road". La linea di confine (Line of Control) del conteso Kashmir e' troppo vicina e oltre questo punto si viaggia solo con permessi speciali: e' zona militare.
Khaplu non offre molte possibilita' di sistemazione: due alberghi di categoria media e alcuni ristoranti-locande. Io alloggio in uno di questi ultimi, l'Hotel Kunis, un posto infimo e scarafaggioso che mi costringe, per la prima volta, ad utilizzare il sacco a pelo invece delle coperte; d'altronde, per la modica cifra di 1 dollaro, non e' che si possa pretendere granche'... Il piano terra dell'albergo e' un ristorante perennemente ostaggio di un nauseabondo odore di olio di frittura, con pareti annerite dal fumo e tavolacci di legno. Al primo piano, si trovano alcune camere: letti con lenzuola bucate e una enorme quantita' di mosche, nate probabilmente dall'insana idea dei gestori di abbandonare gli avanzi di cucina sul tetto, piatto, della casa. Passeggiando per le strade del paese un negoziante pakistano mi chiede dove dormo: "all' hotel Kuna" rispondo. Si gira verso un amico e scoppia a ridere. "Kuna? Sei sicuro?". "Beh si. Guarda, e' quello li, a sinistra, lungo la strada principale". Ma non smette di ridere. "Kuna nella nostra lingua significa ano! Il nome del tuo albergo e' Kunis" mi spiega. Ah... Lo accompagno nella risata; comunque, nomignolo e' quantomai azzeccato.
Ma non tutto il male viene per nuocere. A Khaplu ho il piacere di assistere a una animata partita di Polo e, essendo l'unico straniero ai bordi del campo, ho l'onore di essere ospitato nella piccola tribuna coperta, in mezzo a due poliziotti armati di mitraglietta e spara-fumogeni. Nel corso della partita i poliziotti si divertono a scacciare ripetutamente un gruppo di bambini che, secondo loro, sta infastidendo la "tribuna d'onore"; si avvicinano loro agitando in aria i bastoni, tra gli schiamazzi e le risate dei ragazzini.
Inoltre incontro Rustam Ali, un simpatico e longilineo signore che mi invita nella sua guesthouse a Machulu, un paese a 10 km da Khaplu. "Ti propongo un trek di 2 giorni con la possibilita' di vedere la vetta del K2". Wow, ok, e' quello che aspettavo.
Il giorno seguente mi reco all' ufficio del sovraintendente al Turismo e mi faccio fare un permesso speciale per il trek, visto che andro' in una zona ad accesso controllato. Abbandono con piacere l'hotel Kunis e mi sposto quindi a Machulu, alla Felix Guesthouse, cosi nominata alla memoria di uno scalatore basco morto nel tentativo di scalare il Gerschenbrun 2. L'albergo e' la sede di una NGO spagnola e fa da scuola da alpinismo per i ragazzi del luogo, ai quali viene insegnato il mestiere di portatore di alta quota. In questa regione infatti ogni uomo e' un potenziale portatore. Il numero di spedizioni alpinistiche che ogni stagione tentano di scalare le vette pakistane e' impressionante (oltre 200) e ogni spedizione necessita' di un gran numero di guide, portatori, aiutanti e cuochi; tutta gente ingaggiata tra gli abitanti della zona.
Se a Khaplu c'era poco o niente per il viaggiatore a Machulu non c'e' proprio nulla. Nostante ci abitino quasi 4mila persone, ci sono solo 2 negozi di alimentari, con poca merce e nulla di fresco. Rustam Ali (la mia guida) mi spiega che in paese si vive ancora di agricoltura di sussistenza. Racimolo a fatica le provviste per il trek: al negozio riesco ad acquistare solo i biscotti, sale e zucchero, mentre chiedo ad Ali di comprare alcune verdure da un contadino.
La sera prima di partire Ali mi ragguaglia sul trek: partendo dalla guesthouse, a 2900m, raggiungeremo un alpeggio a 4000m dove pernotteremo nelle casupole dei pastori; il giorno successivo raggiungiamo la sommita' di un monte a 5000m metri da dove, se il tempo e' bello, vedremo i quattro 8mila del Baltisan (K2, Broad Peak, G1 e G2); dalla vetta scendiamo nuovamente a 4000m, dormiamo e il giorno seguente rientriamo alla guesthouse. Pfff... Inspiro profondamente. Pare tosta, ma sono fiducioso. Ho sbolognato ad Ali gran parte dei miei bagagli e parto solo con lo zainetto e la strenua volonta' di raggiungere lo scopo.
Il primo giorno passa bene. Il tempo e' buono e raggiugo in un bagno di sudore il campo a 4000m. Intorno a me ci sono cinque bivacchi in pietra, alcuni recinti per le mucche e un piccante odore di sterco. Sono quasi le 5 del pomeriggio e ho abbastanza tempo per prepararmi una cena decente. Riesco a fare un sugo con i pomodori rimediati da Ali e sono troppo contento. Purtroppo il sugo viene rovinato dai Macaroni pakistani che passano immediatamente dallo stadio crudo a quello scotto senza passare per quello al dente. Risultato: un pappone limaccioso di colore rosso. Vabbe', ho fame e cerco di mangiarlo piu' in fretta possibile.
Ore 8: il cielo e' buio e fa un freddo cane. Srotolo il sacco a pelo e cerco di sistemarmi in una posizione che sia la piu' lontana possibile dalla pila di sterco essiccato che giace in un angolo della casetta.
Mi sveglio alla mattina parecchio indolenzito. Il sacco a pelo non si e' rivelato molto caldo e il leggero mal di testa causato dall' altura mi hanno fatto dormire solo a intermittenza. Riprendiamo a salire verso le otto. L'ascesa e' molto faticosa e muovo i passi lentamente. Pian piano il sentiero scompare, lasciando il posto a pendi scoscesi e grossi ammassi di roccie. Ali mi guida sicuro, di masso in masso. Respiro affannosamente ma alle due e mezza raggiungo la vetta, a quasi 5100m. L'altura gioca dei brutti scherzi e spinge al delirio; ho passato il tempo a canticchiare Sei un mito degli 883, La mia banda suona il rock e quella canzone di Vasco che fa "voglio trovare un senso a questa storia, anche se questa storia..." La testa mi fa male adesso ma il panorama e' eccezionale. E' sereno e si vedono molto bene tutte le vette del Baltisan. La piramide del K2, a solo una sessantina di km di distanza, svetta solitaria; la ammiro per lunghi minuti con il binocolo di Ali: uno spettacolo. Mi immagino alpinista, immerso nella neve, in cordata. Dopo 30 minuti di contemplazione inizia la discesa; mi sono appena fatto 1000m di dislivello in salita e ora me ne tocca scendere altrettanti! Ogni passo e' un fulmine alle ginocchia; le gambe iniziano a cedere. Cerco di essere il piu' lucido possibile per evitare di finire a ruzzolare lungo il pendio; una strada senza ritorno. Divento sempre piu' lento; sono al limite delle forze. L'accampamento dei pastori pare un miraggio; non arriva mai. Vi giungo, alla fine, stremato, verso le 6. Il sole sta tramontando; fatti due conti, oggi ho camminato per 10 ore!
Scendendo abbiamo fatto un'altra strada e l'alpeggio non e' lo stesso di ieri sera: e' piu' piccolo e, aihme', tutte le casette sono gia' occupate dai pastori. Mi aspetta una notte all'aperto e, vista la temperatura di ieri, la cosa mi spaventa. Ceno a base di patate e carote bollite e poi preparo il giaciglio. Dormiro' in uno stretto corridoio tra due casette; e' abbastanza riparato e non si avverte il vento anche se il fatto di stare tra i due bivacchi significa che avro' spesso i pastori a gironzolarmi intorno. Ali adempie sino in fondo ai suoi doveri di guida e mi cede il suo sacco a pelo. Mi infilo quindi, vestito, nel mio sacco a pelo e poi in quello di Ali; da ultimo vengo coperto anche con un telo di plastica: 'na mummia!
Ci saranno non piu' di 5 gradi, pero' sto bene. Ho solo una piccola fessura, tra il naso e gli occhi, esposta al freddo. La notte sopra di me mi regala l'ennesima, splendida, Via Lattea di questo viaggio, ammirata stavolta in maniera inusuale. Vedo anche una stella cadente ed esprimo subito il desiderio di avere i piedi caldi!
Anche questa nottata, tuttavia, e' un lento stillicidio. Se vai a letto alle nove e ti sistemi under the stars a 4000m di quota pensi solo a una cosa: azz, tirare fino alle sei e' lunga. Quante ore sono? Nove? Miiiiii... Un pensiero che ti martella tutta la notte. E poi: dannazione, sto pure pagando per avere questo trattamento! Mettici anche che e' il primo giorno del Ramadan e oltre alle tue sofferenze ti ritrovi anche i pastori che ti camminano intorno alla testa, si preparano il the', chiaccherano e sbattono il latte per fare il burro.
Quando finalmente la notte inizia a fare spazio al giorno mi passo una mano sulla faccia e mi sembra di toccare una spiaggia. La polvere alzata dai passi dei pastori mi si e' attaccata al viso e devo sembrare un piccolo minatore. Non ho avuto freddo, ma non si puo' dire che sia riuscito a dormire. Dopo due giorni all'aperto inizio a sentirmi zozzo.
Non appena aver bevuto un the caldo io e Ali ci rimettiamo in cammino. Le 3 ore che mi separano dalla guesthouse, da un letto e da una doccia calda passano in fretta. Lungo la discesa vengo superato da una donna con una gerla piena di sterco di vacca. Mi fermo a pensare come deve essere la vita da queste parti: una esistenza da passare nei campi, sulle montagne, tra gli animali, a camminare, mungere, raccogliere, essiccare e trasportare letame. Ieri sera prima di andare a dormire Ali mi ha detto, indicando i pastori intenti a scaldarsi intorno a un fuoco all'interno del loro bivacco: "Rene', non sara' come dormire in un albergo, ma stanotte vivrai come loro; un'esperienza autentica".
E io aggiungo, dura, come la vita di questa gente e le roccie delle loro superbe montagne.
Rene'