mercoledì 3 dicembre 2008

Si chiude un capitolo

Non lasciatevi ingannare dalla data. Anche se il post è datato 3 dicembre, la narrazione del viaggio è ferma al primo fine settimana di ottobre.

Lorenzo è partito, destinazione Sydney. Io mi fermo a Melbourne, a riorganizzare idee e cercare un lavoretto. Sabato scorso abbiamo festeggiato, con una lunga notte, la fine del nostro viaggio in auto da Perth a Melbourne: birre al pub nel tardo pomeriggio, una cena a base di specialità thailandesi, la notte in discoteca e l’alba al Revolver, un locale storico di Melbourne che da venerdi sera a lunedì mattina è sempre aperto. Per molti clubbers questa è “l’ultima spiaggia”.
A Melbourne è primavera, tira un sacco di vento, il cielo è coperto, gli scrosci d’acqua sono frequenti ed è periodo di corse ippiche. La città è animata, interessante, con una scena culturale e musicale vivacissima. Dal mio ostello, ricavato da un vecchio convento, posso raggiungere a piedi Brunswick Street, nel quartiere di Fitzroy, dove si concentrano numerosi pub e locali di musica live. Qui il ritmo, soprattutto nei fine settimana, si spinge fino ai marciapiedi, dove hanno luogo concerti improvvisati.
Ben presto ho anche trovato un lavoro: per due settimane monterò tendoni e gazebo all’ippodromo di Geelong, una città 80km a ovest di Melbourne.
Arrivo a Melbourne… lascio Melbourne. Chiudo un capitolo. Il viaggio da Mosca a Melbourne, la lunga traversata asiatica via terra dalla Russia all’Australia, è terminata. Il vento che aveva gonfiato le vele ha smesso di soffiare. La nave è in porto, ormeggiata. Salperà ancora?

3 dicembre 2008, Villa d’Adda, Italia.
Sono tornato a casa da alcuni giorni. Riabbraccio famiglia e amici; tante emozioni, vecchie e nuove. Ho deciso di ripartire: dal treno del viaggio, una volta messo in moto, è difficile scendere.
Torno in Australia; voglio passare ancora un po’ di tempo nel selvaggio outback e confrontarmi con i suoi spazi sterminati, le asprezze, il clima torrido, le mosche intollerabili e venire ripagato da tramonti che infiammano l’orizzonte e albe che sanno di rinascita. Sarà un periodo di lavoro, prima di ripartire per l’Asia dove la rotta verso l’Europa mi porterà a rivedere Paesi amati (Indonesia) e ad esplorare nuovi territori (Iran).
Tra poco sarò nuovamente in viaggio.
René

martedì 18 novembre 2008

In auto fino a Melbourne

La macchina di Lorenzo e' una Mitsubishi Magna. Una berlina bianca con il bagagliaio e i sedili posteriori strapieni di roba; l'assetto, di conseguenza, e' molto ribassato. Gli ammortizzatori, mi spiega Lorenzo, hanno da tempo smesso di fare il loro lavoro. Ogni buca, ogni avvallamento della strada, e' una botta secca. L'acquisto dell'auto a Darwin e' stato un affarone: 1200 dollari australiani; difficile trovare qualcosa a meno. Il mezzo deve arrivare fino a Sydney e ce la fara'. Lorenzo ne e' convinto. Lo sono anche io.
Il primo tratto del viaggio ci porta a sud di Perth, nella zona di Margaret River, nota per la produzione di vino e le onde da surf. Viaggiamo veloci e piu' di una degustazione non ci scappa. Nel corso della prima notte facciamo conoscenza con quella che sara' una costante del nostro viaggio: la pioggia.
L'indomani e' il giorno delle scalate: su per il faro di Augusta, sulla punta sud-ovest dell'Australia, dove l'Oceano Indiano incontra il Southern Ocean; e gli alberi giganteschi di Pemberton (i karri), spazzati dal vento. Quest'ultima, e' una ascesa da brivido; una scala a chiocciola, ottenuta piantando dei tondini di ferro nella corteccia degli alberi, permette di raggiungere una piattaforma di osservazione a 60 metri, sulla cima dell'albero che, il vento, fa oscillare paurosamente. Confesso che mi tremavano le gambe.
Continuiamo a seguire la linea della costa, rincorsi dalla pioggia. Ora siamo a Esperance, che si vanta di avere le spiaggie piu' belle dell'Australia. Le ho viste al mattino, con una tazza di the in mano mentre un timido sole cercava di farsi strada tra le nuvole ed il mare increspato spumeggiava sulla spiaggia di sabbia bianca. Non ho ancora visto abbastanza dell'Australia per decretare che questi siano i litorali piu' belli. Intanto ne faccio un'istantanea mentale.
La traversata da ovest a est ci porta poi sui lunghissimi rettilinei del Nullarbor Plain: la piana senza alberi; un deserto di cespugli rinsecchiti, sabbia e polvere. Qui si trova il tratto di strada senza curve piu' lungo dell'Australia: 146km. Un cartello ci ammonisce di fare attenzione a canguri, cammelli e wombats. Non ne vedremo. Ci accorgiamo invece dell'innalzamento del prezzo della benzina. Dagli 1,40 dollari di Perth siamo gia' passati agli 1,90 e passa. Per migliaia di km non incontriamo paesi ma solo roadhouses a un centinaio di km l'una dall'altra. Ci si ferma per il rabbocco di benzina, una pisciata e, se si e' in vena di spese, un gelato.
La costa sud dell'Australia e', per lunghi tratti, una spettacolare scogliera. Qui, nella stagione giusta, si avvistano le balene con i loro piccoli intenti a farsi i "muscoli" prima della grande traversata verso i mari dell'Antartide. Si vedono a occhio nudo, dalla costa, perche' sono proprio li vicino, ad una cinquantina di metri da te.
Poi, con uno stacco netto, le alte scogliere lasciano il poste a delle enormi dune di sabbia dorata dalle dimensioni sahariane. Io e Lorenzo prima le scaliamo e poi ci mettiamo a tirare calci volanti saltando da una parte all'altra della cresta. In cima ad una duna di sabbia tutti torniamo per un attimo bambini.
Al passaggio di Stato - dal West al South Australia - consegniamo alcune cipolle e una manciata di aglio: leggi di quarantena vietano infatti l'introduzione di frutta e verdura.
Sulla penisola di Eyre dirotto Lorenzo verso l'unica colonia di leoni marini del continente australe (le altre colonie sono su isole al largo della costa). Giungiamo al posto dopo kilometri e kilometri di strada sterrata. Povera Mitsubishi, messa a dura prova dall'impervio terreno; ma al parcheggio lei e' a testa alta, unica tra un esercito di jeep 4x4. Questa giornata si conclude con l'accampamento piu' scenico del viaggio: siamo in cima ad una collina, con vista su un braccio di mare, le luci di Port Augusta che si perdono in lontananza, a ridosso della cresta di cime delle montagnose Flinders Ranges .
Una mezza giornata di guida e siamo gia' ad Adelaide. Qui cambiamo una gomma (la traversata del Nullarbor Plain ha lasciato il segno) ed esploriamo la vicina regione vinicola della Barossa Valley, la piu' antica e famosa dell'Australia. In breve tempo visitiamo 4 cantine e degustiamo 24 vini. Dire che siamo euforici e' poco. D'un tratto le colline della Barossa ci sembrano quelle del Chianti e le australiane che incrociamo improvvisamente tutte fighe. E' l'effetto del vino su due che sono stati troppo a lungo lontani dall'Italia.
Dalle stelle alle stalle. L'accampamento notturno al parco nazionale di Coorong e' bestiale. Siamo su una fetta di terreno a ridosso di una laguna. Oltre le acque solo una fila di dune e poi il mare. Il posto e' infestato da insetti e zanzare. Siamo costretti a montare la parte interna della tenda (la zanzariera) e a nasconderci dentro per cucinare e mangiare. Roba da contorsionisti.
Prima di arrivare nello stato di Victoria e spostare le lancette dell'orologio avanti di mezz'ora, facciamo una foto ricordo sotto l'aragosta gigante (una statua) di Kingston. Una delle tante pacchianate turistiche nelle quali ti puoi imbattere in Australia (c'e' anche il Koala gigante, la banana gigante, l'ananas gigante, la carrucola gigante... continua...).
Abbiamo viaggiato soli per una decina di giorni, nelle enormi distese australiane, nel vuoto, lungo sterminati rettilinei, a salutare ogni macchina che incrociavamo. Noi, con solo vento, pioggia e polvere a farci compagnia. Ora, con Melbourne alle porte, abbiamo tanta gente intorno e ci sembra strano. Ai 12 Apostoli c'e' un andirivieni continuo. I possenti faraglioni si trovano lungo una delle maggiori attrazioni turistiche del Paese: la Great Ocean Road. Di Apostoli ne saranno rimasti ormai solo sette o otto, sempre spettacolari, costantemente flagellati dalle onde, precari, sul punto di crollare, da un momento all'altro. I display informativi del Visitor Center gia' lo dicono: un giorno non ci sara' piu' nessuno dei 12 Apostoli. Quel giorno l'ufficio marketing dell'ente turistico australiano annuncera' che gli Apostoli sono risorti altrove, magari lungo le coste inesplorate del Western Australia o a pochi passi da Sydney. Geni della promozione. E la gente abbocca; in massa.
4 ottobre 2008. Una Mitsubishi Magna bianca, insieme a tante altre auto percorre l'autostrada da Geelong a Melbourne. Meno 80, meno 50, meno 30 kilometri. Piove, c'e' nuvoloso e fa freddo. La skyline di Melbourne sbuca dalla foschia.

Una volta in citta' ci stabiliamo in un campeggio nel quartiere periferico di Coburg.
Sono arrivato a Melbourne, dopo quasi 15 mesi di viaggio, ma non e' ancora tempo di tirare conclusioni.
Rene'

mercoledì 5 novembre 2008

A Perth e Freemantle

Perchè Perth non mi impressiona? E' una città molto nuova. C'è un centro relativamente compatto fatto di grattacieli ed edifici commerciali con due strade pedonali sulle quali si affacciano i negozi. A piedi si gira il tutto in un' ora e gli edifici “storici”, quelli con piu' di 100 anni si devono cercare con molta attenzione. Sono stato una volta in centro di notte, al cinema: la sala era mezza vuota e le strade, di giorno affollate di colletti bianchi, erano deserte. Le serate, ho poi capito, non si passano qui ma a Northbridge, una breve passeggiata dal centro, dove c'e' un'alta concentrazione di ristoranti e pub giganteschi. Le licenze per la vendita di alcolici sono infatti molto care nello Stato del Western Australia e ciò spiega le dimensioni dei locali: piu' gente ci sta dentro, piu' drink si vendono. Oltre i confini del centro e di Northbridge si estende il resto della citta': una successione di villette unifamigliari con giardino, centri commerciali, impianti sportivi e parchi. Nel complesso, parecchio impersonale. Tenendo conto che a Perth vivono alcuni milioni di abitanti la cosa fa si che la citta' si espanda su una superficie impressionante, mettendo in mostra quello che è il lifestyle dell' australiano medio: casa, giardino, barbeque, pick-up e, se le finanze lo permettono, barca.
A Perth mi congedo da Arthur, che riprende il viaggio in macchina verso Sydney, e mi vedo con Andrea, un amico di Como, che lavora da alcuni mesi alla University of Western Australia. Un incontro molto gradito! Posso pernottare nel soggiorno del suo appartamento e mi godo un po' di privacy dopo settimane di vita d'ostello. Passiamo serate a chiaccherare, cucinare, bere birra e vino rosso. Si tirano facilmente le ore piccole, noi, gli unici a tenere la luce accesa in una citta' che va a letto presto e si sveglia alle 5 di mattina per fare jogging. Perth, mi spiega Andrea, e' cosi: grande, efficiente ma ancora molto provinciale. Cosi alla sera, in cerca di un po' di movimento, andiamo a Freemantle, una cittadina ormai inglobata da Perth, sul mare, a 30 minuti buoni di treno dal centro. Qui si respira un'aria piu' libertina, aperta e creativa, data dal fatto di essere centro portuale e casa di artisti e spiriti liberi. A Freemantle inoltre c'e' il birrificio della Little Creatures, che produce birre di ottima qualita'. Accanto allo stabilimento hanno costruito una grande dining hall dall' accattivante aspetto industriale. Oltre enormi vetrate si ha l'impressione di poter quasi toccare le luccicanti cisterne e le tubature che processano il liquido ambrato.
Con Andrea passo una settimana intera prima di stabilirmi a Freemantle e tornare alla vita, spersonalizzata, dell'ostello. Una scelta dettata, oltre alla vicinanza del birrificio, dalla maggiore personalita' del posto rispetto alla sensazioni anonime, piatte, percepite a Perth. Snocciolo così le giornate di un'altra settimana, tra librerie, cappuccini e DVD all'ostello. L'esperienza piu' attiva che mi concedo e' una gita in barca di 2 ore ad avvistare balene. È bello vederle così da vicino, a breve distanza dallo scafo, anche se i basculamenti causati da un mare capriccioso danno filo da torcere al mio stomaco. La cosa mi indispone al punto da non riuscire a scattare foto. Un peccato.
Finalmente arriva Lorenzo, conosciuto a Darwin alcuni mesi fa, che, con la sua macchina, si e' appena sparato tutta la West Coast. Con lui mi appresto a coprire l'ultima tratta del mio viaggio; la meta, Melbourne, e' ormai in vista.
Rene'

martedì 28 ottobre 2008

Lungo la West Coast

A Broome, di fronte ad un paio di birre, saluto Rusty, l'amico australiano che mi ha aiutato a trovare il lavoro nelle Kimberley. Sono pronto ad aggregarmi ad un ragazzo israeliano, Arthur, che sta viaggiando verso Perth. Partiamo a fine agosto sulla sua Ford Fairmont bianca stracarica di roba; una station wagon degli anni 90 in ottime condizioni.
Con Broome alle spalle e una decina di kilometri percorsi siamo gia' in mezzo all'outback, l'Australia selvaggia, deserta: niente radio, il cellulare che non prende, poche auto e distese di cespugli e terra rossa a perdita d'occhio. La strada segue la linea della costa e si trova a pochi kilometri dal mare, ma e' una certezza che ci e' data unicamente dalla cartina; intorno a noi il paesaggio e' monotono, la strada e' dritta e di acqua non se ne vede. Per raggiungere la spettacolare e lunghissima Eighty Mile Beach bisogna lasciare la highway e percorrere alcuni kilometri di strada sterrata. La spiaggia di sabbia bianca e' popolata solo da uccelli e alcuni pescatori. Scatto qualche foto e raccolgo una conchiglia ricordo di una delle spiaggie piu' lunghe al mondo.
Port Hedland, il prossimo centro abitato (sui 15mila abitanti), si trova a 600km da Broome. Qui ci fermiamo solo per fare provviste e benzina. Lasciamo infatti la costa per raggiungere il Karijini National Park che, personalmente, considero il paesaggio australiano per antonomasia. Passiamo due giorni a camminare tra stretti canyon rocciosi, torrenti, cascatelle ed eucalipti. Alla sera, il sole in tramonto esaspera drammaticamente il colore rosso delle roccie e pennella di viola alte nuvole stratiformi; un crepuscolo da fine del mondo. Dopo il piattume della costa gli altopiani del Karijini con i suoi imprevedibili torrenti, le strette e profonde ferite scavate dall'acqua, i punti panoramici, i precipizi verticali e le spettacolari dimensioni e colori della roccia sono un piacere per gli occhi. La terra australiana ci avvolge e si incastra in uno dei nostri pneumatici, lacerandolo. Il successivo acquisto di una nuova ruota a Tom Price, nel profondo West, non si rivela un'operazione economica.
Dall'entroterra ritorniamo verso la costa e facciamo tappa ad Exmouth un luogo significativo per la sua posizione: e' dove la costa, dopo essersi snodata a ovest di Broome, "vira" decisa verso sud e Perth. A Exmouth inizia il Ningaloo Reef, la barriera corallina della West Coast, decisamente piu´piccola di quella “Grande” lungo la costa orientale ma sicuramente piu´accessibile; bastano un paio di pinne e un boccaglio. I coralli si trovano infatti ad un centinaio di metri dalla spiaggia. Unico inconveniente – e non da poco – le dispettose correnti sottomarine che generano un pericoloso effetto risucchio impedendo, talvolta, il ritorno alla battigia. Oltre al Reef il posto si distingue per una base navale e una selva di radio antenne statunitensi.
Poco lontano dalla cittadina e dalle radiazioni una piccola collina ospita un grazioso faro. Al tramonto, da questa altura, scorgiamo enormi megattere in migrazione. Stanno ritornando con la prole verso i mari dell´Antartide dopo essersi riprodotte al largo della costa nord occidentale dell´Australia. Con un po´ di fortuna, oltre alle pinne e agli sboffi delle balene, si puo´ scorgere qualche salto (che giustifica la loro denominazione inglese di humpback whales).
Exmouth mi da un po´ la sensazione di “fine del mondo”, ultimo bastione colonizzato, oltre al quale non c´e´ piu` nulla. Sensazione data dal fatto di trovarsi all´estremo settentrionale di una stretta penisola con niente intorno se non l´immenso vuoto australiano. Da qui ci spostiamo a sud di oltre 700 km fino a raggiungere Shark Bay e Monkey Mia. Un`altra zona sperduta, dal nome inquietante e ricca di fauna acquatica: squali - ovviamente - delfini e dugongs che, alimentandosi delle enormi distese sottomarine di alghe, vengono ribattezzati le “vacche del mare”. Monkey Mia e´ famosa perche´ lungo le coste di questa baia puntualmente, ogni mattina e da oltre 30 anni viene in visita un gruppo di delfini. La cosa ha giustificato la nascita di un resort sulla famosa spiaggia e i delfini vengono ora nutriti da un gruppo di ranger tre volte al giorno. Secondo alcuni una pratica scorretta ma va pur considerato che il turista che si spara migliaia di km per raggiungere questo posto unicamente per scorgere da vicino i delfini, una volta arrivato... li vuole poi vedere!
Continuando il viaggio verso sud la vegetazione brulla e semidesertica dell´ outback lascia progressivamente posto a pascoli, campi e boschi. In Australia e´ primavera e i dintorni di Kalbarri sono vivacizzati dalle molteplici colorazioni dei fiori selvatici. Distese colorate a perdita d´occhio. Un paradiso per gli appassionati.
Kalbarri e´ a un giorno di macchina da Perth e la cosa si percepisce passeggiando per le strade di questa cittadina. Una graziosa localita´ di villeggiatura animata dai vacanzieri del fine settimana che, dopo avere passato una giornata di pesca d`altura, riempiono ristoranti e bar. A nord e a sud del paese la costa e´caratterizzata da alte scogliere, modellate dalla furia di vento e acqua. Kalbarri e` l´ultimo posto dove si respira la tranquilla, indolente aria della cittadina di provincia, prima di arrivare a Perth, la metropoli dove risiede l´85% della popolazione dello stato del Western Australia.
Lungo la strada ci fermiamo una ultima volta per vedere il Pinnacle Desert, cosi chiamato per via delle roccie monolitiche che, a centinaia, spuntano dalla sabbia poco lontano dal mare. Un posto misterioso e interessante e, come molte delle attrazioni australiane, facilmente accessibile in macchina: si puo` persino fare lo slalom tra i pinnacoli.
A 12 giorni di distanza da Broome ecco comparire all`orizzonte la skyline di Perth: i grattacieli della CBD, il Central Business District. Per la prima volta dopo mesi vedo tante auto tutte insieme, traffico, persone che affollano marciapiedi. Perth è la prima citta' con milioni di abitanti che visito in Australia e la prima impressione non e´ entusiasmante.
Rene'

mercoledì 22 ottobre 2008

Di ritorno a Broome

I giorni passano. Volano. Sei settimane trascorrono in fretta. E' il 22 agosto e ho lavorato per 35 giorni, circondato dall' immenso bush. Spesso ho sentito il bisogno di muovermi, di esplorare quello che mi sta intorno; di impulso sarei partito a piedi, inseguendo l'orizzonte, con la voglia di scoprire cosa si trova oltre quella collina, al termine di quella radura o cosa nasconde quel gruppo di roccie. Un viaggio impossibile, folle, che sarebbe terminato presto per mancanza di cibo o acqua. Solo fantasie della mente, innescate dall'isolamento del luogo.
Ora mi appresto a tornare, come si suol dire, alla civilta', in un modo particolare. Dalla fattoria di Drysdale River (a 60km dal camp) mi imbarco su un piccolo aereo, atterrato da pochi minuti: sta consegnando la posta in angoli sperduti delle Kimberley. Il pilota-postino, Aron, ha 22 anni e ne dimostra 18. Mi dice che vola da 3 anni: sono nelle sue mani. L'aereo e' minuscolo: bi-elica, 8 posti e tanti pacchi da consegnare. Dopo avere lasciato Drysdale River planiamo su altre due fattorie, Doongan e Theda, sulle comunita' aborigene di Kalumburu e Oolbungurri, prima di arrivare alla cittadina di Wyndham e raggiungere la destinazione finale di Kununurra. Quattro ore di sali-scendi, vuoti d'aria, piste d'erba o di terra battuta, con una mano sul sacchetto per il mal d'aria e lo sguardo incollato al finestrino. Sotto di noi, infinite distese di terra brulla e roccia, serpentini corsi d'acqua e mandrie di bestiame: siamo i postini dell'aria. Ad ogni atterraggio scambiamo qualche parola con gli abitanti del posto, beviamo un bicchiere d'acqua, rabbochiamo carburante e poi ci congediamo, fino alla prossima consegna; Aron, in quest'area di remota Australia, lo fa gia' da due anni.
Quando arrivo a Kununurra, con il viso candido come quello di un lenzuolo, ho l'impressione di venir travolto da una ondata di rumore. E' strano, forse improbabile, dato che mi trovo in un sonnolento paese di 6mila anime. Tuttavia il cambiamento, da nulla a molto, e' drastico. Da una tenda singola circondata da natura incontaminata, alla camerata di un ostello. Mi lascio andare a sensazioni nostalgiche, ricordando fresche albe e brucianti tramonti; stavo meglio ieri, penso, ma ho comunque voglia di viaggiare, di tornare al movimento. L'indomani sono gia' su un pullman con destinazione Broome; 13 ore e mi ritrovo dove avevo cominciato, giusto un mese e mezzo fa. Davanti a me si distende tutta la west coast e la bellezza di almeno 3mila kilometri prima di arrivare a Perth.
Rene'

lunedì 13 ottobre 2008

Si lavora!

Broome, west coast australiana, 15mila abitanti e una spiaggia di sabbia bianca lunga 22km, bellissima. Un tempo remoto villaggio di cercatori di perle e' ora una localita' di vacanza tra le piu' gettonate della costa. Il business della perla e' ancora florido e coinvolge allo stesso modo turisti, che visitano le zone di produzione e comprano souvenir, e popolazione locale, impiegata negli stabilimenti. Tra i backpackers che affollano gli ostelli di Broome un posto nell'industria delle perle e' molto ambito in quanto, nonostante il lavoro sia duro (14 giorni consecutivi per 7 di ferie e cosi via), la paga e' ottima: fino a 1200 dollari a settimana, si dice.
Broome e' una cittadina impossibile da girare a piedi. Ma come - vi chiederete - con soli 15mila abitanti? Tanto per cominciare, il centro storico, che si gira in 20 minuti, e' distante 7km dalla spiaggia di Cable Beach (quella bella di sabbia bianca). Poi ce n'e' un'altra, detta Town Beach, dove si trova anche la biblioteca e un piccolo museo che sta ad un paio di km dal centro. Tutt'intorno ci sono i quartieri residenziali - estates - e zone industriali, con l'aeroporto piazzato a meta' strada tra Cable Beach e il centro. Per chi e' appiedato come me e' un macello; situazione aggravata dall'esistenza di un unico pullmann che transita ogni 30 minuti.
A Broome e' di casa Rusty, un ragazzo australiano conosciuto in Cambogia, che per 6 mesi all' anno fa la guida nelle Kimberley: porta a spasso turisti per 13 giorni su un truck 4x4 di marca Isuzu. Lo incontro un lunedi sera; e' sbronzissimo perche' ha appena terminato un tour e si sta godendo 2 giorni di pausa. Tra una birra e l'altra riesco a spuntare un colloquio di lavoro per il mercoledi successivo: in uno dei loro campeggio stanziali (wilderness o safari camps) cercano personale.
Il seguente incontro con Tony, uno dei responsabili della Kimberley Wilderness Adventures, piu' che un colloquio si configura come un "ti spiego quello che c'e' da fare e tu mi dici se la cosa ti interessa". Accetto e ringrazio e dopo alcuni giorni, il 14 luglio per l'esattezza, sono sul camion-frigo che trasporta, settimanalmente, i viveri nei 3 campeggi situati nelle Kimberley, a nord-est di Broome. Torno sulla Gibb River Road; torno su una strada percorsa solo poco piu' di una settimana fa, ma in senso opposto. Sono destinato all' Ungolan Wilderness Camp, presso le Mitchell Falls e poco distante dalla costa. Da Broome sono quasi 900km e 3 giorni di viaggio su strada sterrata: come un Milano-Bari, ma senza nulla in mezzo! Se mi cercate su un atlante, buona fortuna; farei prima a fornirvi le coordinare GPS e aggiungo: non ho mai viaggiato tanto per raggiungere un posto di lavoro.
All'inizio e' dura. Devo abituarmi ai nuovi ritmi; le giornate sono sfiancanti: a giorni alterni, sveglia alle 5.15 o alle 7. Cucinare, pulire, lavare, stendere, sparecchiare... Percepisco a malapena il luogo, il paesaggio: potrei essere ovunque invece mi trovo in un posto speciale che solo da pochi anni gli australiani hanno iniziato a scoprire. Pensate che una delle zone piu' sceniche - le Bungle Bungle, cupole di roccia stratificata di differente colorazione - sono state rese note al grande pubblico solo nel 1982; e che ci siano altri tesori nascosti, soprattutto sotto forma di arte rupestre, lo sospettano in molti.
Dopo una settimana alle Mitchell Falls vengo trasferito al Marunbabidi Camp, 200km a sud-est rispetto al precedente, nell'entroterra, in mezzo al bush. Qui passo le successive 5 settimane e le mie condizioni lavorative vanno migliorando. Il campeggio e' piccolo: conta 16 tende e puo' ospitare fino ad un massimo di 32 persone. A lavorare siamo in 4 e ce la caviamo egregiamente; le mattinate finiscono intorno alle 12, il che ci concede alcune ore di relax prima del turno serale, che solitamente va dalle 16 alle 21. Ho assimilato il ritmo di lavoro e mi godo il tempo libero: dopo avere preparato colazioni, rifatto letti, pulito gabinetti e steso la biancheria posso concedermi una nuotata nel torrente vicino al campeggio, leggere un libro o semplicemente dormire all'ombra di un albero. Scopro il bird-watching e mi diverto ad appostarmi con binocolo a scovare gli uccelli del posto: colorati pappagalli, falchi, aironi e altri volatili dagli strani nomi (Cockatoo, Kookaburra). Apprezzo la solitudine, la tranquillita' e l'isolamento di questo posto incontaminato. Niente TV, niente radio. Un telefono ci tiene collegati al mondo e ci permette una lentissima navigazione (28k) internet. Le Olimpiadi me le sono perse. Ho appreso che la Cina ha vinto il medagliere, ma era una cosa facilmente prevedibile.
I nostri vicini di casa - una comunita' aborigena in disuso e una fattoria, a 20km di distanza - non li vedo quasi mai. Una sera uno sparo poco distante dal campeggio mi avverte che gli aborigini hanno appena fatto provviste di carne (una mucca). Qui nel bush non si va molto per il sottile; hai fame? Uccidi. Il sole e' torrido, la vegetazione arida, la natura selvaggia e le parole sono preziose come l'acqua nel corso della Dry Season: se chiedi ad un local da quanto tempo abita qui, dopo un lungo sguardo e una pausa di 10 secondi, ti rispondera' "too long", spostando gli occhi sul paesaggio, come in un western di Sergio Leone.
Nell'ultimo racconto vi avevo gia' accennato alle dimensioni, ma vi do ulteriori dati sull'area: le Kimberley occupano il 16% dello Stato del Western Australia, una regione che puo' contenere tranquillamente Inghilterra, Giappone e Germania; la superficie si estende per 700km da est ad ovest e 600km da nord a sud, per un totale di 421mila km quadrati; al suo interno si trovano fattorie e proprieta' private grandi come mezza provincia di Bergamo.
A Marunbabidi, 20 giorni dopo il mio arrivo, il sole al tramonto colora di rosso l'orizzonte, gli uccelli lanciano gli ultimi, acuti, richiami e il fuoco al centro del campeggio illumina i volti dei nostri ennesimi ospiti serali; e' in questo momento che, alzando gli occhi alle prime stelle, mi rendo conto di essere in un posto speciale.
Rene'

lunedì 6 ottobre 2008

Il Kimberley tour

Fine giugno; e' arrivato il momento di partire. Dopo lunghe indagini e ricerche decido di aggregarmi ad un tour organizzato che in 9 giorni (e 8 notti) mi portera' da Darwin a Broome, sulla west coast. Gia' prima di arrivare in Australia avevo deciso che avrei visitato, ad ogni costo, la zona chiamata Kimberley che, a detta di molti, è l'ultima vera frontiera del continente: coste frastagliate infestate da coccodrilli, un bush selvaggio, lunghi canyon scolpiti da turbolenti fiumi, aspri massicci rocciosi, gole, cascate e immense fattorie. L'area e' grande come una volta e mezza l'Inghilterra, o 11 volte la Svizzera, e popolata da non piu' di 50mila persone.
L'autostrada asfaltata che collega Darwin a Broome aggira le Kimberley, che vengono attraversate solo dalla Gibb River Road: 700km di sterrato che non perdona; nel corso del tour abbiamo forato 2 volte, rotto un parabrezza e fuso un cuscinetto!
Le fattorie in quest'area sono talmente grandi (alcune superano 1 milione di ettari) che e' inutile, e troppo costoso, recintarle; le vacche pascolano allo stato brado e vengono controllate tramite elicotteri.
Insieme a me viaggiano altre 7 persone, tutte schiacciate nel retro di un Toyota Landcruiser (siamo seduti uno di fronte all'altro). La nostra guida, Kurt, e' un classico cowboy; un ragazzo del posto, muscoloso, abbronzato e belloccio che si farebbe tutte le tipe - ce ne fosse una carina... - del gruppo. Sempre alla ricerca dell'effeto speciale ma, devo ammettere, sa il fatto suo quando si tratta di fare "vita all'aria aperta". La prima notte, dopo cena, sparisce e torna dopo mezz'ora con in mano un coccodrillo d'acqua dolce (in teoria, innocuo) di un metro. Non bastasse, lo molla vicino al fuoco e in un nano secondo 8 persone saltano sulle sedie e urlano "cazzo, riprendilo in mano!".
Nei giorni seguenti, dopo averci illustrato le meraviglie del mondo animale, ci impressiona con una serie di tuffi in pozze d'acqua da altezze spropositate: siamo sui 25-30 metri. Un altro giorno cattura il pesce che ci mangiamo per cena; poi va a caccia di gamberi da fiume: un tipo in gamba insomma.
Lungo la Gibb River Road abbiamo visto quasi tutte le gole e le cascate raggiungibili in 4x4. Posti fantastici, incontaminati; fiumi d'acqua gelida e cristallina. Le sistemazioni notturne sono sempre state di tipo "campeggio selvaggio", in mezzo alla natura, sotto le stelle. Serate trascorse intorno a caldi fuochi e notti limpide, di un freddo pungente; il clima semidesertico della regione significa infatti giornate calde (35 gradi) e notti rinfrescanti (5 gradi).
Kurt si e' distinto anche in cucina: menzione speciale per un cosciotto d'agnello e verdure cotti alla brace; assolutamente deliziosi.
Per me e' il primo assaggio di outback australiano; il selvaggio entroterra. Ammetto: mi sarebbe piaciuto farlo autonomamente ma le risorse finanziarie attuali non lo permettono. Il tour e' ok e il fatto che il gruppo sia piccolo lo rende una buona alternativa al viaggio indipendente.
Strade sterrate, roccie rosse, polvere, vegetazione arida e maestosi fiumi mi sono entrati nel cuore e quando il sole si inabissa nelle acque dell' Oceano Indiano a Broome, 1200km a sud-ovest di Darwin, ho come la sensazione che quello delle Kimberley non sia un capitolo chiuso.
Rene'

lunedì 22 settembre 2008

Convalescenza a Darwin

Prima cosa: ho caricato le foto relative all'Indonesia. Cliccate qui per visualizzarle!
(oppure il link sulla colonna di destra)

Il giorno successivo al mio arrivo in Australia mi reco in ospedale. Al Pronto Soccorso del Royal Hospital di Darwin ricevo trattamenti ambulatoriali gratuiti (grazie a degli accordi bilaterali con l'UE) e nuove dosi di antibiotici. Il ginocchio e' ancora bendato e la ferita genera pus ma spero negli effetti del nuovo cocktail farmacologico.
La prima settimana di soggiorno australiano la passo al Gecko Lodge dove cerco di abituarmi a nuovi ritmi e consuetudini di viaggio. Accetto di malumore il fatto che d'ora in poi la maggior parte delle mie sistemazioni saranno costituite da camerate in ostello, con tutto cio' che ne deriva: rumore, compagni di stanza molesti, sporcizia, disordine, furti, puzza.
L'impatto con la valuta locale (dollaro australiano) e' uno shock. Tutto mi appare carissimo: dormire, mangiare, bere, spostarsi. I soldi entrano ed escono dal portafoglio ad una velocita' impressionante. I pasti economici nei ristorantini asiatici sono un lontano ricordo. D'ora in avanti colazioni, pranzi e cene vengono consumati nella cucina dell'ostello.
L'eta' media dei viaggiatori che incontro si e' decisamente abbassata: gran parte dei "work and holidayers" (i possessori, come me, di un visto annuale di tipo vacanza-lavoro) ha meno di 25 anni. L'attitudine di viaggio e' molto "party" e fracassona. O si lavora o si fa casino. Dove sono finiti i vecchi esploratori?
Chi viaggia per un certo periodo di tempo in Australia cerca di farlo on the road. Cio' permette di individuare due tribu' e due modi diversi di intendere il viaggio australiano. Da una parte ci sono i "backpackers", i rumorosi abitanti degli ostelli, dall'altra "quelli con il van", che affollano campeggi e caravanpark. Talvolta i due mondi vengono in contatto, soprattutto quando qualcuno "cerca" un passaggio e altri lo "offrono". Personalmente, non riconoscendomi in nessuno dei due gruppi, continuo a sognare di svegliarmi un giorno in possesso di un Toyota Landcruiser per poter esplorare le piste sterrate dell'immenso outback.
A Darwin passo due settimane di convalescenza. La mattina zoppico per le strade del centro mentre nel pomeriggio mi rilasso all'ostello, leggendo, scrivendo o navigando in internet. C'e' un clima tropicale, abbastanza umido. E' in corso la stagione detta "dry", perche', al contrario della "wet", non piove mai e il cielo e' sempre blu. Darwin e' una citta' che conta solo 200mila abitanti ma che e' distribuita su una superficie che in Italia ospiterebbe almeno 1 milione di abitanti. C'e' un piccolo centro dove ci sono uffici e negozi ed il resto e' fatto di case uni-famigliari con giardino. Di condomini ce ne sono pochissimi. Piu' che una citta' mi sembra un paese "allargatissimo". A piedi si puo' girare solo il centro; per il resto ci vuole un'auto. E' la prima citta' che vedo in Australia ed e' un sacco diversa da qualsiasi altro centro abitato visitato in Europa. Devo ammettere: non mi fa impazzire. Per fortuna qui la burocrazia e' snella e in 2 giorni mi ritrovo con codice fiscale e conto corrente. Pronto per un eventuale primo lavoro.
Finalmente, dopo molti mesi, incontro ragazzi italiani con cui scambiare due chiacchere! Conosco Silvia e Matteo, di Mestre, che sono gia' da 8 mesi in Australia e Lorenzo, un ragazzone di Pescara; sono loro a svelarmi strategie e tattiche per sopravvivere un anno in Australia; mi sembra di capire che serva, soprattutto, molto lavoro!
Qui vicino a Darwin c'e' il Kakadu National Park, dove hanno girato Mr. Crocodile Dundee, una delle tappe fisse di un viaggio in Australia. E' una regione molto vasta, ricca di acquitrini a nord, vicino al mare, e di cascate a sud, dove le pianure lasciano il posto ad altipiani rocciosi. Pur essendo in corso la stagione secca, i fiumi sono ancora carichi di acqua limacciosa e nei pressi della costa sono popolati da aggressivi coccodrilli. Alcuni gruppi rocciosi, che spuntano come monoliti da un terreno pressoche' pianeggiante, portano la testimonianza della milleniaria cultura aborigena. Dipinti misteriosi che parlano di leggende e tradizioni che si perdono nella notte dei tempi.
Esploro il parco con Silvia, Matteo e Jonas, un ragazzo tedesco; affittiamo un campervan 4x4 e ogni occasione e' buona per buttarsi sullo sterrato. Passiamo 3 notti al Kakadu, una delle quali sulle sponde dell' Alligator Billabong (un'ansa "morta" di un fiume): un campeggio selvaggio tra uccelli, canguri e zanzare, raggiunto dopo quasi 40km di strada sterrata. Anche noi come Mr. Crocodile Dundee.
Poi si ritorna a Darwin, in tempo per vivere un'altra delle notti insonni a vedere le partite dell' Europeo. Durissimo star sveglio fino alle 7 di mattina per assitere al termine di un pallosissimo quarto di finale. E' decisamente ora di cambiare. Il ginocchio da segnali positivi e di fronte a me si distende la vastita' del continente rosso.

Rene'

lunedì 15 settembre 2008

E infine... Australia

E’ una notte ad intermittenza, quella passata all’ospedale di Baucau. Il dolore mi sveglia in continuazione. Sudo. Un medico che mi visita nel corso della nottata predice che tra alcuni giorni tutto sara’ passato. Difficile crederci.
Alle 6 di mattina mi caricano su un pullman locale diretto a Dili. Il mio scooter e’ appeso sul retro. A parte il pedale del freno posteriore, che e’ piegato, non ha subito danni. Prima di mezzogiorno sono gia’ a Dili, dove il proprietario dell’ East Timor Backpackers mi carica sulla sua jeep e mi riporta all’ostello. Qui trascorrero’ una settimana di degenza, in attesa di prendere l’aereo per Darwin, Australia, il 7 giugno.
Sette giorni passati a leggere (poco, a dire il vero; ho terminato uno Spiegel abbandonato da un viaggiatore tedesco), mangiar pesante (non potendo muovermi, sono costretto a cibarmi al ristorante indiano a fianco dell’ostello; curry a tutte le ore), bere birra, guardare la tv (film e serie tv piratate: I Soprano, Heroes, Entourage) e a giocare alla Nintendo Wii (figata!) o a carte con gli altri personaggi dell’ostello: un giovane australiano che da quasi un mese cucina pranzi a buffet per tutto l’ostello; una ragazza inglese impegnata nel volontariato; un francese che lavora per l’Onu e un americano, esperto di informatica, che sta cercando di farsi assumere dal Ministero delle Finanze di Timor.
Dopo 2 giorni mi reco ad un pronto soccorso gestito da una ONG (una specie di Emergency) dove una infermiera mi toglie i punti perche’ la ferita e’ infetta. Sto prendendo antibiotici 3 volte al giorno ma non sembra facciano un gran effetto (sara’ perche' sono di produzione indonesiana?). Cerco di andare al Pronto Soccorso ogni secondo giorno ma la situazione non migliora. Cammino a fatica, non riesco a piegare il ginocchio e l’infezione e’ sempre presente. Vorrei tanto vedere un dottore ma l’ospedale dell’ ONU e’ off-limits (aperto solo per i dipendenti), quello statale e’ un delirio, un medico privato australiano non ha un attimo libero per i prossimi sei giorni e al Pronto Soccorso della ONG (dove i trattamenti sono gratuiti) c’e’ una marea di gente; un pomeriggio decido comunque di aspettare e mi faccio visitare dal dottore americano responsabile del centro: pur essendo ancora infetta, mi rassicura, non e’ una brutta ferita; e mi consiglia di recarmi all’ospedale appena arrivato in Australia.
Sabato 7 giugno. Mi disfo di alcuni vestiti in eccesso e della camicia, parzialmente lacerata, dell’incidente e mi reco di buona mattina all’aeroporto. E’ un momento importante del viaggio. Sto attendendo il primo aereo dopo quelli che mi hanno portato a Mosca, l’11 luglio 2007. Sono quasi passati 11 mesi. Ho attraversato l’Asia via terra.
Decollo su un piccolo aereo a doppia elica, una quarantina di posti di capienza, e mi lascio alle spalle Timor, l’Indonesia, il continente asiatico, storie eccezionali e fantastiche avventure.
Dopo un’ora e venti minuti sono gia’ a Darwin, nel immenso nord australiano. Oltre i vetri del taxi scorre un paesaggio ordinato, una citta’ pulita, poco traffico. Un tranquillissimo sabato. A tratti deserto. Arrivato all’ostello poco dopo mezziogiorno mi tocca aspettare fino alle 2 steso sul divano perche’ la reception e’ chiusa durante il lunch-break. Alcuni viaggiatori mi chiedono cosa sia successo al mio ginocchio (oltre a zoppicare, ho una vistosa benda). Quando parlo di Timor Est mi guardano strano: e’ un paese, e’ una citta’, e’ in Australia? Non capiscono; non conoscono.
Per loro sono un marziano, appena atterrato sul pianeta australe.
Rene'

domenica 7 settembre 2008

Nel regno dell' ONU

Se siete curiosi di sapere cosa fa l’ONU, questo misterioso istituto sovranazionale, una vacanza a Timor Est puo’ rivelarsi interessante. Il paese e’ infatti amministrato dalle Nazioni Unite, pur essendo indipendente dal 2002; per dovere di cronaca vi ricordo che e’ la nazione piu’ giovane della Terra.
Passeggiando per le strade di Dili (la capitale) non si puo’ fare a meno di notare le numerose ferite di un sanguinoso passato caratterizzato da colonialismo, saccheggi, rivolte, guerriglia e barbarie: edifici che cascano a pezzi, strade con enormi buche, segni di proiettili sui muri delle case, scritte violente, aiuole e parchi trasformati in campi profughi. Gli abitanti di Timor sono sempre stati dominati: prima dai portoghesi, poi dagli indonesiani e ora dai caschi blu dell’ONU. La presenza di questi ultimi, sia in termini militari che amministrativi, e’ massiccia. Le candide Toyota Landcruiser con i letteroni neri UN stampati sulle fiancate sfrecciano in mezzo agli sgangherati taxi timoresi; serve un occhio attento agli attraversamenti pedonali, per non finire stesi.

Il fatto che ci sia l’ONU induce la popolazione locale a pensare che qualsiasi straniero presente sul territorio sia in qualche modo coinvolto in lucrose attivita’ (i soldi che arrivano per la ricostruzione di Timor sono tanti, ma ben pochi finiscono nelle tasche della popolazione; penso vengano in gran parte utilizzati per alimentare la “macchina” ONU). La prima domanda che viene posta non e’ infatti “where are you from?” bensi “who do you work for?”; per chi lavori? Io spiego di essere un turista, un viaggiatore interessato a scoprire il paese. Stupore.
Di curiosi o intrepidi visitatori come me ce ne sono veramente pochi. Per lo piu’ si incontrano all’ East Timor Backpackers, forse l’unica sistemazione “budget” della capitale: 10 dollari USA (la valuta “locale”) per una notte in camerata su materassi minimi e rigide reti metalliche. Purtroppo, grazie all’ONU, i prezzi per gli stranieri sono molto inflazionati e cio’ che si paga non e’ per nulla relazionato a quello che si riceve. Un doloroso passo indietro, dopo tutte le camere singole delle quali ho goduto negli altri Paesi asiatici.
Timor sta abbastanza con il culo per terra (il reddito annuo pro capite, di poco sopra i 100 dollari, e’ tra i piu’ bassi del mondo): l’agricoltura e’ per lo piu’ di sussistenza, non c’e’ industria o terziario e gran parte degli alimenti devono essere importati. L’infrastruttura turistica e’ assente; significa quindi che per girare bisogna organizzarsi. Vi chiederete a questo punto a cosa serva tutto questo circo dell’ ONU. Presto spiegato: al largo della costa sud orientale c’e’ un grosso giacimento petrolifero. Insomma c’e’ sempre di mezzo l’oro nero! E la torta chi se la mangia? Banalmente: USA, Australia e politici locali controllano il petrolio; i portoghesi si occupano di telecomunicazioni (monopolio), i cinesi hanno in mano il commercio e i timoresi, ancora una volta, non riescono a fare i padroni a casa loro. E’ il colonialismo nell’ anno 2008.
Ma torniamo alle mie vicissitudini...
Visto che non sono qui a fare giornalismo d’inchiesta (anche se varrebbe la pena) decido di lasciare per alcuni giorni Dili e di avventurarmi nell’entroterra. Decisione saggia che mi pemette di incontrare dei volti un poco piu’ allegri rispetto a quelli incrociati nella capitale. Con uno scooter a noleggio – un temibile mezzo di produzione cinese, piu’ simile ad una bicicletta motorizzata che ad una moto – mi sposto a Maubisse, un gradevole e sgangherato paese su per i monti al centro dell’isola; si trova in posizione panoramica, a 1600m di altezza, circondato da colline avvolte in fresche nubi. Ogni volta che salgo di quota continuo a stupirmi di come, pur trovandomi in una fascia equatoriale, possa fare freddo a certe altezze; forse e’ dovuto al fatto che il fisico subisce uno shock termico al variare repentino delle temperature. Meno male che sono partito attrezzato da Dili; pantaloni, camicia, giacca a vento e sacco a pelo mi permettono di passare una ottima nottata: una super dormita, in camera singola, su un comodo materasso. Al Bed&Breakfast dove alloggio si trovano anche 2 ingegneri, uno di Timor, l’altro indonesiano, che mi illustrano il progetto al quale stanno lavorando: una serra per la coltivazione di ortaggi poco lontano da Maubisse. Chiaccherando con loro ho la conferma della disastrata situazione dell’economia locale; ogni piccolo passo, ogni miglioria – mi spiegano – e’ una grande conquista.
In una lunga giornata alla guida del mio mezzo lascio il B&B e arrivo a toccare le acque della costa orientale dove una incantevole ragazza mi riempie il serbatoio con la benzina necessaria per tornare a Maubisse. Scelgo di percorrere una strada alternativa per raggiungere l’altopiano: sulla carta e’ piu’ breve ma ben presto si rivela... parecchio accidentata. Il percorso taglia dritto dalla costa fino a Maubisse e sale ripido, serpentino, sui fianchi delle montagne. L’asfalto lascia subito strada ad uno sterrato che da ciottoloso, complice il clima umido, si trasforma in fango. Procedo molto lentamente, con cautela, e, quasi miracolosamente, raggiungo la cima del passo senza scivolare. Arrivo alla base che e’ gia’ buio, mi riempio lo stomaco e mi infilo a letto sfinito.
L’indomani rientro a Dili per un breve pit stop; decido infatti di ripartire quasi subito, nel primo pomeriggio, alla volta di Baucau, la seconda citta’, per numero di abitanti, di Timor.
La strada segue la linea costiera ed e’ molto scenica; spiaggie di sabbia bianca si alternano ad alte scogliere rocciose. E’ una costa frastagliata, dove l’azzuro del mare contrasta con le tonalita’ gialle e marroni della vegetazione, fatta di piccoli alberi, arbusti e lunghi, taglienti, fili d’erba. La carreggiata e’ sinuosa; l’asfalto e’ ok. Faccio sosta per alcune foto; poi riparto. Tutto procede bene. Mi rilasso. Troppo.
Entro spedito in una curva. A questo punto l’istinto mi dice di evitare la frenata brusca; rischio infatti di cadere sull’asfalto e di sbucciarmi tutto. Opto quindi per una decelerazione dolce. Allargo la traiettoria della curva finendo prima sulla ghiaietta al lato della strada e poi sull’ erba dove un sasso, nascosto sotto la vegetazione, interrompe bruscamente la corsa dello scooter e mi proietta in aria oltre il mezzo.

Crash, boom, bang

Accade tutto molto in fretta. Atterro faccia in giu’, nell’erba. Mi rialzo prontamente e inizio a controllarmi freneticamente. Tasto il viso con le mani. Perdo sangue. Ho il naso sbucciato, abrasioni sul labbro e all’interno della bocca. I denti ci sono ancora tutti. Sospiro di sollievo. Poi qualche graffio sul braccio, poca roba. Avverto un dolore, che si va intensificando, al piede destro; ho la caviglia slogata. Piu’ in alto, all’altezza del ginocchio, proprio sulla rotula, individuo un taglio lungo un centimetro, abbastanza profondo. Dalla ferita sgorga una striscia di sangue che mi riga la tibia. Sono in uno stato di semi-shock e mi muovo in continuazione. Raccolgo lo zaino, cerco l’acqua, rialzo il motorino. Intanto si e’ fermato un pick-up con a bordo 3 persone del posto. Mi offrono dell’acqua e dei fazzoletti. Mi sciacquo e cerco di pulire le ferite. Sono pieno di polvere. Cerco di far mente locale. Mi dicono di essere diretti a Baucau e si offrono di caricare lo scooter, me compreso, sul retro. Accetto.
Non ricordo quanto tempo e’ passato su quel pick-up, seduto su una cassa, con una mano attaccata allo scooter e l’altra al fianco della macchina. Forse 1 ora, forse di piu’, in preda ai sobbalzi, alle frenate, ai dolori. Ogni tanto qualcuno dall’interno dell’abitacolo si girava e mi faceva dei cenni; forse controllava se ero ancora li; che non fossi volato via...
La corsa termina al Pronto Soccorso di Baucau. Difficile da descrivere. Una accozzaglia di piccoli edifici; a tratti sembra di trovarsi in una scuola abbandonata. Sale vuote. Altre con rifiuti e vecchi mobili accatastati. Non riesco a camminare. La caviglia si e’ gonfiata e mi fa molto male, cosi come il ginocchio. Due infermieri mi sorreggono e mi aiutano a raggiungere una stanza. Qui un altro infermiere mi fa stendere su un lettino ed inizia a disinfettarmi le ferite. Mi trovo in una piccola stanza, sporca, con attrezzature mediche sparpagliate a destra e a manca. Mentre ricevo le cure arriva un altro paziente, trasportato da 4 persone, che finisce su un lettino vicino al mio. Non so cosa sia successo a lui. Mugugna, soffre, si tocca un fianco e per ben 2 volte rischia di cascar per terra. Non oso guardare. Intanto l’infermiere e’ arrivato al ginocchio, prende un ago, mi guarda e dice “now pain”. Cazzo, capisco cosa ha in mente. Una sutura senza alcun tipo di anestetico. Metto una mano in bocca e la morsico mentre il tipo procede con le operazioni di piercing. Per fortuna il taglio non e’ troppo lungo, altrimenti sarei sicuramente svenuto!
Terminate le cure mi chiedono se ho un posto dove stare. Rispondo di no. Non so dove andare e non ho la forza di muovermi. Chiedo se c’e’ un letto libero qui all’ospedale. Mi fanno quindi accomodare in un’altra stanza con due letti. Mi sdraio e cerco di capire se hanno qualcosa da mangiare. Dopo una ventina di minuti l’infermiere che mi ha assistito mi porta una ciotola di pollo speziato con del riso bollito. Mangio tutto. Inghiotto una pillola di anti-dolorifico e cerco di dormire. Fuori e’ buio. Sogno di potermi addomentare e di svegliarmi guarito. Sogno.
Rene'

lunedì 1 settembre 2008

Sintesi indonesiana

Mettetevi comodi o stampate: ho scritto molto.
Da Sumba a Timor mi sorbisco la traversata in nave piu’ lunga del viaggio in Indonesia: 32 ore, in quanto faccio scalo a Flores prima di raggiungere Kupang, il principale porto sull’isola di Timor. Il battello, come al solito, e’ una specie di carretta del mare un poco arrugginita (cigolii che provocano ansia) dotata tuttavia di alcuni pregievoli confort come una zona con aria condizionata dove per alcuni spiccioli si puo’ affittare un materassino, da stendere per terra, sul quale passare la notte e la tv via satellite, buona per vedere un film in inglese (il patriottico "Beyond enemy lines" – storia di un pilota americano abbattuto in Serbia durante i bombardamenti Nato, solo contro tutti, ma ce la fara’) oppure una gara di MotoGP (anche in Indonesia, Rossi-mania).
Kupang e’ l’ultima citta’ di una certa dimensione (300mila abitanti) che visito in Indonesia ed e’ anche un po’ la summa di questi rocamboleschi 60 giorni nell’ arcipelago. Trafficata, rumorosa, talvolta sporca e caotica ma, in fondo, molto friendly.

Il bemo di Kupang

Cos’e’? Il bemo e’ un taxi collettivo che si trova in tutte le citta’ dell’ Indonesia. Nella forma di un furgoncino, ospita solitamente 8 persone ma non c’e’ un vero limite alla capienza. Gira su rotte fisse che sono identificate dai colori del bemo oppure da numeri. Si ferma a richiesta dei passeggeri. Oltre al conducente (poco piu’ che maggiorenne nella maggior parte dei casi) impiega uno “strillone” che, aggrappato alla porta scorrevole, all’esterno dell’abitacolo, richiama l’attenzione dei passanti urlando le destinazioni e ferma il mezzo battendo con la mano sul tetto. Il bemo e’ privato e c’e’ quindi una agguerrita competizione per ogni passeggero, anche sulla medesima rotta.
A Kupang ho visto i bemo piu’ belli e fracassoni di tutta l’Indonesia. Esiste un vero e proprio fenomeno di tuning, per avere il mezzo piu’ figo della citta’. La musica e’ un elemento essenziale e viene sparata senza pieta’. Sotto i sedili paralleli nel retro del furgone (dove ci si siede di lato e si viaggia uno di fronte all’altro) sono alloggiati enormi casse e woofer; quando la musica e’ alta, il culo vibra e l’orecchio duole. L’interno e’ “cuscinato” e predominano colori come il rosa e il verde acqua (forse per fare un piacere alle ragazze). Circolano comunque anche dei bemo piu’ cazzuti, roba da maschi, interni neri e musica rigorosamente rock (Guns & Roses e Metallica). L’interno, oltre all’imbottitura, e’ tapezzato con poster di popstar (Britney e Avril tirano) e calciatori (Cristiano Ronaldo).
Sulla carrozzeria, all’esterno, spesso si trova il nome del bemo: un enorme adesivo catarinfragente che titola “Love Britney”, “Man U”, “Riccardo Kaka’”, “Azzurri”. Ragazzi, roba incredibile. Fatti per me inspiegabili. A Timor la presenza cattolica e’ forte e talvolta si vede in giro un adesivo di Gesu’ con la corona di spine o della Madonna.
Poi ci sono i lunghi antennoni, che non servono a nulla, perche’ non c’e’ il CB. La carena e’ lucidissima, perfetta, con vernice metallizzata. Particolari cromati. Cerchi in lega. Assetti ribassati.
Di notte e’ uno spettacolo di luci; gli interni si tingono di rosa o blu grazie a lampade al neon; lo stesso accade sotto il veicolo: un colpo all’acceleratore e l’asfalto si colora.
Ogni bemo e’ personalizzato, bellissimo, e ho l’impressione che ci sia una certa fedelta’ nella clientela, del tipo, “io viaggio solo con il taxi collettivo del mio amico” oppure “su quello che mette la musica che mi piace”.
Si paga la corsa poco prima del proprio arrivo e si scende... al volo!

Altri mezzi di locomozione indonesiani

Da citta’ a citta’...
Pullman con aria condizionata: assegnazione dei posti, confortevoli, viaggiano di giorno e di notte e si fermano solo nelle autostazioni
Pullman senza aria condizionata: per spostamenti di corto raggio, non c’e’ un limite di capienza, si fermano su richiesta e in continuazione, velocita’ media intorno ai 25km orari, anche gli animali sono ammessi. Presenza costante a bordo di venditori ambulanti e cantautori locali dotati di chitarra. Frequenti guasti meccanici. Consigliabile dotarsi di infinita pazienza.
Treno: presente unicamente sulle isole di Java e Sumatra, rappresenta una gradevole alternativa al pullman.
Aerei: statisticamente non i piu’ sicuri al mondo; tuttavia veloci.
Nave: generalmente un vecchio scafo arrugginito, piu’ o meno affollato a seconda delle tratte. Anche le piu’ elementari norme di sicurezza vengono trascurate (si fuma ovunque). Dotati comunque di TV via satellite e VIP-spaces ad aria condizionata.
Charter: per i viaggiatori piu’ esigenti e danarosi; trattasi del noleggio di una macchina con autista.


All’interno della citta’...
Taxi: rapido e confortevole, va tenuto d’occhio il tassametro e la furbizia del tassista
Minibus (bemo): sapete gia’ tutto
Becak: riscio’ a pedali. Lento ma economico. Ottimo per il sightseeing. Molto diffuso.
Ojek: sicuramente il mezzo di trasporto piu’ utilizzato. Mototaxi. Non essendo richiesta alcuna licenza virtualmente ogni motorino e’ un potenziale taxi. Economico, puo’ tuttavia rivelarsi pericoloso. Non sembra esserci limite alla distanza percorribile.
Cidomo: carretto trainato da cavalli, ospita fino a 6 persone. Ecologico e nostalgico.
Benur: il nome forse deriva dalle bighe utilizzate nel film Ben Hur. Simile al cidomo ma utilizzato unicamente per il trasporto merci. Il conducente sta in piedi su una piattaforma, briglie in mano.

Popolazione amica

Gli indonesiani sono incredibilmente socievoli e simpatici. Sono stato subissato dagli “Hello Mister” e dalle richieste di conversazione. Praticamente in ogni citta’ o paese visitato ho fatto nuovi amici e scambiato numeri di telefono; al 99% sono stati momenti gradevolissimi. Un solo episodio sfortunato: il ricchione che mi ha rinchiuso nel suo appartamento a Jakarta. Rispetto ad altre popolazioni socievoli (es. Indiani) ho notato che l’indonesiano ha un genuino interesse alla conversazione; una curiosita’ sincera che non nasconde truffe o proposte d’affari.

Calcio-mania

Come in molti paesi del sud-est asiatico anche l’Indonesia e’ colpita dalla calcio-mania. Qui si segue soprattutto la Serie A (come in Cina) senza trascurare comunque Premier League, Liga Spagnola o Bundesliga. Le icone calcistiche sono Kaka’, C. Ronaldo, Lampard, Del Piero, Totti, Maldini. Adesivi e poster spopolano soprattutto su camion, motorini e taxi. Top teams: Milan, Inter, Man U, Chelsea, Liverpool.
A Kupang ho visto la finale di Champions League: una notte lunghissima. Il pomeriggio prima della partita ho affittato uno scooter e al momento della consegna – non ricordo come – ho conosciuto un ragazzino che mi ha subito invitato a casa sua per seguire la partita. E’ venuto a prendermi a mezzanotte in albergo e mi ha portato a casa di un suo amico. Qui, insieme ad altri 20 ragazzi, abbiamo seguito la partita. Menzione speciale per la casa: una piccola abitazione di 5 metri per 5, muri di legno e tetto in lamiera dove, in un’unica stanza, ci stanno a malapena letto e angolo cottura; sotto una piccola veranda, di fronte alla casa, alloggiano una TV dallo schermo enorme e 4 casse giganti, degne di una discoteca. In giardino staziona una antenna parabolica motorizzata. TV, casse e parabola costano probabilmente piu’ della casa. Quando chiedo lumi sulla loro presenza (e’ un dj? Organizza feste?) qualcuno mi spiega che, semplicemente, al tipo piace ascoltare musica ad alto volume.
La combriccola tifava quasi tutta Man U (partita pallosa) e io, da bastiano, parteggiavo per il Chelsea. Isteria totale ai gol. Sedie che partivano in aria, abbracci, pacche sulle spalle, vicinato svegliato: una gioia che rasentava le lacrime. Al termine dei rigori partiva un carosello di scooter (alle 6 di mattina, tra le prime luci dell’alba); io insieme ad altri 2 ragazzi: in 3!
Affascinante follia indonesiana.
Memorabili momenti, come quello di un ragazzino che, in mezzo ad una banda di mini calciatori in un campetto di paese, mi rincorre urlando “hello mister, my name is Frankie!” (indossava una t-shirt con l’immagine stampata di F. Lampard). Eccezionale.

Fino al confine e oltre


A Kupang conosco Edwin e Joel. Il primo e’ il gestore del Lavalon Cafe’, da tempi immemori un covo di viaggiatori; fino all’ultimo cerchera’ di realizzare il mio sogno di traversata marina fino in Australia. Invano. Ma almeno ci ho provato. Joel invece e’ un attore australiano reduce da 3 anni di recitazione in una soap opera (Home and Away, equivalente australiana di Un posto al sole). Amareggiato e deluso dallo show biz australiano, che reputa palloso e antiquato, si prepara ad un viaggio via terra verso Londra e nuove speranze di carriera. Un tipo simpatico.
Prima di raggiungere Dili e Timor Est faccio una tappa intermedia a Kefa, nell’entroterra, e mi godo gli ultimi sprazzi di indonesianita’: gente calorosa, cibo piccante e sfide serali a calcio con i ragazzini (Playstation 3!).
Il giorno successivo, nel corso del viaggio verso il confine il bus si scassa (ci risiamo...) e mi tocca aspettare un minibus di passaggio. Giunto ad Atambua, ultimo paese prima della frontiera con Timor Est, mi organizzo per coprire i restanti 30km che mi separano dalla “piu’ giovane nazione al mondo” (indipendente dal 2002). Viaggio in mototaxi e tutto fila liscio. Meno male. Chiudo senza graffi 2 splendidi mesi nel vastissimo e popoloso arcipelago indonesiano.
Supero quindi agilmente la dogana, sincronizzo l’orologio (+1) e chiedo un passaggio ad un camionista; sono quasi le 4 del pomeriggio e i mezzi pubblici hanno smesso di transitare a mezzogiorno. Per 5 dollari americani posso viaggiare insieme a lui e ad una partita di materassi fino a Dili (130km), la capitale di Timor Est, dove arrivo in una calda e buia notte di fine maggio.
Rene'

mercoledì 20 agosto 2008

Sanguinaria Sumba

Altra isola, altro traghetto. Dopo Flores e’ la volta di Sumba, una delle zone culturalmente piu’ interessanti dell’arcipelago indonesiano. Mi lascio alle spalle vulcani e foresta pluviale per scoprire un paesaggio caratterizzato da dolci e ondulate colline ricoperte da bassi arbusti ed erba giallastra e tagliente. Una terra arida, dura, battuta da forti venti oceanici; potrei essere in Spagna o in nel sud Italia, non fosse per quegli alti tetti di paglia che spuntano sulla cima di molte colline. Sono le case tradizionali di Sumba, un’isola dove antiche pratiche e rituali sono ancora fortemente radicate tra la popolazione. La guida che mi accompagna per una giornata di esplorazione dei villaggi (Boni) mi spiega che la posizione arroccata facilitava in passato la difesa della comunita’ dagli attacchi di tribu’ rivali mentre gli alti tetti di paglia, quasi conici, vengono tuttora costruiti per ospitare le anime dei defunti che, pur essendo deceduti, continuano ad abitare nelle stesse case.
Il rito funerario e’ probabilmente l’aspetto piu’ folgorante di una visita ad un villaggio tradizionale sumbanese; nel corso del funerale infatti, di fronte ad una numerosa folla, composta da tutti gli abitanti della comunita’, vengono sacrificati i beni piu’ importanti appartenuti al morto; beni che sono destinati a seguirlo nella vita dell’ oltretomba: galline, maiali, bufali e talvolta anche cavalli (una pratica, quest’ ultima, che il governo indonesiano sta cercando di scoraggiare), sgozzati a colpi di machete nel centro del villaggio, su un altare sacrificale. Nel corso della visita ad una comunita’, Boni mi avverte che tra pochi giorni ci sara’ un funerale dove verranno probabilmente uccisi 6 bufali. Sanguinario! Purtroppo il tempo per me stringe e non posso prolungare oltremodo la mia permanenza a Sumba per assistere a questo rito. In ogni caso non so se avrei retto alla visione delle mucche immolate a colpi di mannaia. Probabilmente la cosa mi avrebbe aperto le porte al mondo vegetariano.
Come a Flores, anche a Sumba gli abitanti piu’ importanti vengono sepolti in enormi tombe megalitiche, ornate da bassorilievi, al centro dei villaggi. Alcune tombe sono veramente grandi e per la sollevazione delle pietre sono necessari centinaia di uomini e lunghe giornate di sforzi.
Sumba e’ decisamente un’isola poco turistica. Dimenticate la massa di Bali. Qui le onde capricciose dell’ oceano Indiano si infrangono su spiaggioni deserte di sabbia bianca e molti abitanti vestono ancora con abiti tradizionali, finemente ricamati; gli uomini con la daga infilata nella cintura e una sciarpa annodata in testa. In quattro giorni gli stranieri li ho contati sulla dita di una mano. La visita ai villaggi e’ stata affascinante, un’esperienza autentica, quasi antropologica fatta da gesti semplici, ma carichi di significato. Vi spiego: Boni mi presenta all’anziano capo della comunita’ - una figura quasi regale - alle quale io offro pacchetti di sigarette e manciate di noce moscata (qui la masticano in continuazione; una roba amarissima e leggermente narcotica). Questi, seduto sotto il tetto spiovente della sua abitazione, ornata con teschi di mucche e maiali sacrificati, accetta di buon grado le offerte e acconsente quindi alla visita del villaggio. Insieme alla mia guida e accompagnato spesso da una allegra processione di bambini, ho cosi il permesso di fare foto e di entrare in alcune case. In una delle visite mi e’ capitato pure di partecipare ad un rito sciamanico, con lo stregone che, dopo aver preparato una mistura di noce moscata e liquido (saliva?), mi spalmava il tutto sulla fronte pronunciando misteriose frasi. Roba da brividi lungo la schiena.
Rene’

giovedì 14 agosto 2008

A spasso per Flores

L'isola di Flores e’ raggiunta dopo 9 ore di traghetto da Sumbawa. Una traversata tranquilla, quasi sonnolenta, salutata per alcuni secondi da una coppia di delfini. Labuanbajo (o Bajo), il porto di arrivo, e' un puzzolente villaggio di palafitte che gode di un certo fascino. La baia sulla quale si affacciano le case e gli scoscesi pendii ricoperti di vegetazione che si tuffano nel mare sembrano usciti dalla matita di Hugo Pratt; uno scenario degno delle avventure di Corto Maltese.
A poche miglia marine da qui si trovano le isole di Comodo e Rinca, abitate dai temibili draghi, lucertoloni lunghi un paio di metri noti per il fatto di essere carnivori e sempre affamati. Le isole fanno parte di un parco nazionale e le visito insieme ad un gruppo di altri viaggiatori. Il ranger che ci accoglie al campo base di Rinca ci porta a passeggio per un paio di ore e ci aiuta a individuare un dragone, addormentato all'ombra di una roccia; l'animale, ci spiega, e' in fase digestiva perche' negli scorsi giorni si e' pappato un cerbiatto. Apprendiamo inoltre che i dragoni non ammazzano e si cibano subito delle loro vittime ma le morsicano infettandole con la loro saliva; questa causa una malattia mortale nella sfortunata bestia che viene sorvegliata dai dragoni fino al decesso: un appostamento che puo' durare settimane. Quando c'e' una particolare carenza di cibo, i dragoni si ammazzano anche tra di loro: cannibalismo!
Dopo alcuni giorni a Bajo, all'estremita' occidentale di Flores, mi sposto verso est, raggiungendo il centro dell'isola. Visito i paesi di Ruteng e Bajawa, nell'entroterra, dove di notte fa sorprendentemente freddo; intorno ai 10 gradi. Il paesaggio intorno a Bajawa e' particolarmente attraente: foreste umide e lussureggianti, vulcani dai coni perfetti, villaggi tradizionali dove si vive ancora in case dai tetti di paglia. Ingaggio un moto-taxi per una giornata intera con lo scopo di esplorare alcuni villaggi della zona. Il primo che visito gode di una posizione spettacolare su un balcone naturale all'inizio di una stretta vallata: vulcano alla destra, colline sulla sinistra e l'azzurro del mare sulla linea dell'orizzonte. Poco lontano, nel fitto della foresta, due torrenti, uno d'acqua gelida, l'altro bollente, si uniscono per formare un naturale bagno termale; godurioso. Approfitto per farmi la prima "doccia" calda dopo settimane.
Nel pomeriggio faccio tappa al villaggio di Wogo. E' in corso il funerale (rito cattolico) di una anziana abitante. Qui incontro Ervin, una ragazza del posto, che parla un ottimo inglese e mi spiega alcune tradizioni della popolazione locale (gli Ngada), tra le quali quella di seppellire le persone piu' importanti nel centro del villaggio sotto strutture a forma di ombrellone o di casa in miniatura; queste vengono "consultate" prima di prendere decisioni importanti come la semina, il raccolto o i matrimoni. Una interessante e misteriosa commistione di cattolicesimo e animismo. Mi porta a vedere anche delle pietre megalitiche, alte fino a 3 metri, dalle origini e significato oscuri. Al termine del funerale Ervin mi invita in alcune case (dalle strutture rettangolari di legno, a un piano, rialzato, e dal tetto di paglia) dove i parenti della defunta (praticamente tutto il villaggio) si sono riuniti e stanno consumando un pasto. Anche a me viene offerto un piatto; trattasi di riso stopposo con fagioli e pezzi di carne (forse maiale) gommosi e di difficile masticazione; cerco di fare del mio meglio e mangio almeno il riso: non voglio offendere nessuno! Dopo che Ervin mi ha presentato ad una decina di persone vengo portato in un'altra casa dove mi ritrovo nuovamente con un piatto (identico) sotto il naso; ugh! Stesso rituale di prima. Sulla soglia della terza casa pero' prendo la ragazza per un braccio e la imploro di terminare il giro di presentazioni; ho lo stomaco che mi sta per scoppiare! La saluto e chiudo questa esperienza culturale veramente particolare.
Ritorno a Bajawa che e' ormai sera e buio pesto. L'unico locale aperto sembra essere la stanza al piano terra di una casa dove un gruppo di ragazzini, seduti sul pavimento, sta giocando alla Playstation 2 su tre differenti televisori (deve essere la sala giochi del paese). Ficco il naso e subito mi invitano a una sfida a calcio; gioco alcune partite con l'Italia, vincendole quasi tutte; mi diverto un sacco a urlare in faccia ai ragazzini "Pippooooo!" o "Gila!" ad ogni gol. Piovono pacche sulle spalle e risate generali. Football mania.
Dopo Bajawa faccio tappa alle pendici del vulcano Kelimutu. L’attrazione del luogo e’ la presenza di 3 laghi colorati all’interno della caldera: uno marrone, uno quasi nero e un altro turchese. Spettacolare. Sembrano tempere sulla tavolozza di un pittore. La colorazione delle acque e’ dovuta alla presenza di minerali nella roccia. Secondo una tradizione locale i laghi sono abitati dagli spiriti dei morti. Dalla cima del vulcano riesco a scorgere l’azzurro del mare lungo le coste meridionali e settentrionali (l’isola e’ abbastanza stretta) e, sforzandomi, arrivo quasi a vedere la punta orientale dell’isola. Il paesaggio e’ una successione di vulcani, molti dei quali attivi e con i coni fumanti.
Flores e’ tutta un saliscendi: strade tortuose, serpentine, strette vallate, burroni e ripidi pendii. Il suolo e’ nero e spesso ricoperto da una fitta vegetazione tropicale. Una splendida e capricciosa isola vulcanica.
Una guida del posto mi racconta che hanno appena evacuato una zona a est dell’isola in quanto stanno aspettando il “botto” di un vulcano. Wow. Tranquilli, io sto andando nella direzione opposta. Termino il soggiorno a Flores nella citta’ di Ende, una delle piu’ grandi dell’isola, dove, sul lungomare, c’e’ un vivace mercato del pesce; freschissimo. I tonnarelli appena pescati sono ancora sanguinolenti e finiscono abbastanza in fretta, una volta tranciati, dalle barche sul retro di un pick-up. L’odore penetrante del pesce si mischia in continuazione a quello piu’ fresco degli ortaggi, in vendita poco piu’ in la. Tutti gli scarti finiscono poi tra le sabbie nere della spiaggia, preda delle fauci di chiassosi gabbiani o dribblati da schiere di ragazzini alla rincorsa di un pallone. Travolgente realta’ indonesiana.

Rene'

sabato 9 agosto 2008

Global tropical village

Vi do le coordinate spazio temporali, per fare chiarezza e evitare confusioni. E' la fine di aprile e sto lasciando Bali. Un battello di legno lungo una quindicina metri, mi porta insieme ad altri 10 viaggiatori verso le isole Gili, al largo di Lombok. Sei ore, cullati da un ritmico basculamento che mette a dormire i piu'.
Trawanggan, Air e Meno sono i nomi delle 3 isole che formano l'arcipelago delle Gili. Minuscole gemme coralline incastonate in un mare di un colore blu profondo. Un ottimo posto per fare snorkelling, immersioni, rilassarsi e viziarsi con ottima cucina e vivaci serate danzerine. La piu' grande delle 3 isole - Trawanggan - si gira in meno di 1 ora in bicicletta... Piccoli paradisi di tranquillita': sulle isole non ci sono strade asfaltate; quindi zero auto e zero motorini; solo biciclette, con le quali ci si insabbia, e cidomo, dei piccoli carretti trainati da cavalli.
Le isole sono una destinazione molto popolare tra i viaggiatori, probabilmente grazie alla vicinanza di Bali, e sono quindi diventate una tappa fissa dellla "ruta backpackers" nel sud-est asiatico. Ovviamente, come ho gia' notato in posti simili (soprattutto in Laos e in Thailandia), cio' significa una rinuncia dei connotati locali, in questo caso indonesiani, per adattarsi alle necessita' del viaggiatore global. Fenomeno questo che ha colpito soprattutto Trawanggan, dove si trova di tutto, dal cappuccino alla pizza, dagli hamburger agli untissimi fish & chips. C'e' chi gode e si arena su queste spiaggie per 1 mese e c'e' chi storce il naso e scappa dopo alcuni giorni; come avrete ormai capito, io ricado nella seconda categoria. Cio' non toglie comunque che anche io approfitti della insonnia festaiola delle isole e dei suoi agi; per 2 notti consecutive finisco a letto alle 6, causa semifinali di Champions League, tra inglesi ubriachi e indonesiani football-maniaci. Inoltre la consapevolezza di trovarmi nell' ultimo party-place prima dell'Australia mi spinge a darci dentro. Conosco alcuni tipi interessanti: un istruttore di sub italiano; un gruppo di ragazze olandesi, una delle quali invaghita del subacqueo; un ragazzone tedesco reduce da 5 mesi di lavoro a Jakarta, con il quale mi confronto sulle follie notturne della capitale indonesiana.
Lascio questo villaggio globale dopo 6 giorni, 3 dei quali passati a Gili Trawanggan e 3 a Gili Air. Attraverso quindi in pullman e frettolosamente l'isola di Lombok; decisione che, a posteriori, rimpiangero', in quanto l'isola ha molto da offrire: oltre alla ultra-socievole popolazione indonesiana, c’e’ un vulcano di oltre 3000m, foreste pluviali e una selvaggia e incontaminata costa meridionale, battuta dalle spumeggianti onde dell'oceano indiano.
In meno di 24 ore mi ritrovo quindi a Sumbawa Besar, la maggiore delle citta' sull'isola di Sumbawa: destinazione numero 5 del mio "island-hopping", dopo Sumatra, Java, Bali e Lombok.
Nota farmacologica: a partire dalle isole Gili ho iniziato a drogarmi quotidianamente con una pillola di Malarone, per prevenire la febbre malarica; le aree che sto visitando sono infatti considerate a rischio.
A Sumbawa mi ritrovo di nuovo totalmente immerso nella "esperienza indonesiana": assenza di viaggiatori stranieri e gente che mi saluta in continuazione, vogliosa di iniziare una conversazione. Il mio Bahasa Indonesia sta progredendo e mi avvicino ora ai 5 minuti di chiaccherata basic.
La permanenza a Sumbawa, come a Lombok, e' breve. Sto iniziando a contare i giorni che mi restano sul visto turistico; la strada fino a Timor Est (e l'Australia), ancora lunga e, soprattutto, imprevedibile, mi spinge ad accelerare il ritmo del viaggio. Mi sparo tre quarti dell'isola in una sfiancante giornata di spostamento. Copro i 250km che mi separano da Sape - il porto dove mi imbarchero' per l'isola di Flores - in 13 ore, ad una media di 20km all'ora, a causa di guasti meccanici e di un bus che si ferma in continuazione a far salire e scendere passeggeri. Sono stretto tra due file di sedili con un sacco di riso sotto i piedi che mi costringe in una posizione rannicchiata, a ginocchia raccolte, che ammazza lentamente gambe e fondoschiena. Sono pieno di dolori e non riesco a spostare i piedi oltre il sacco di riso in quanto il pavimento del pullman e' surriscaldato e mi crema letteralmente le suole delle infradito. Fa talmente caldo che gli zipper metallici dello zaino della mia vicina di posto sono diventati incandescenti e uno mi ha ustionato il polpaccio! Il bus e' zeppo di persone e animali (galline in maggioranza) e non c'e' posto piu' neanche per uno spillo; anche se sono l'unico straniero in viaggio, questa volta c'e' poca voglia di scherzi e sorrisi: stiamo tutti soffrendo e speriamo che questo tortura finisca presto. Quando allo scoccare delle 20 arrivo alla pensione-palafitta sul molo di Sape sono talmente sfinito che non trovo neanche la forza di spaventarmi quando un rattazzo delle dimensioni di un gatto mi attraversa la strada nel corridoio. Casco in un sonno pesantissimo che si interrompe bruscamente alle 5 di mattina, quando l'implacabile muezzin della moschea di fianco all'albergo decide che e' tempo di chiamare a raccolta i fedeli. Allaaaaaaaaaaaaaahhhhh!
Rene'

martedì 29 luglio 2008

Fantastica Bali

Sceso dagli extraterrestri paesaggi del vulcano Bromo mi ritrovo nella convulsa e caotica realta' indonesiana. Con un bus notturno mi sposto da Probolinggo a Bali, dove arrivo, rincoglionito, alle 5 di mattina. Un taxi, dal tassametro molto probabilmente taroccato, mi porta da Denpasar, la citta' piu' grande dell'isola, a Kuta, scaricandomi direttamente nel cuore del frenetico e affollato centro turistico mondiale.
Bali e' diversa, unica, affascinante. L'Indonesia e' un paese musulmano ma l'isola di Bali e' di religione induista; se gli indonesiani sono gentili e cordiali, i balinesi lo sono ancora di piu'. Giorno dopo giorno l'isola rivela i suoi molteplici aspetti, quelli di un posto... fantastico.
Ho noleggiato uno scooter per potermi muovere in liberta'. Nonostante l'isola sia minuscola se paragonata a Sumatra o al Borneo, le principali attrazioni turistiche sono comunque separate una cinquantina di km l'una dall'altra.
I primi giorni li passo a Legian, nel sud dell'isola, a pochi passi da Kuta, nella bolgia balneare. La spiaggia e' lunga, bellissima, con onde di media altezza che si infrangono capricciose sulla battigia; un ottimo posto per fare i primi passi su una tavola da surf. Sono giornate oziose, tra bagni, letture, tramonti infuocati e serate a sudare in caldi e affollati locali notturni insieme a tanti australiani allo sbaraglio e muscolosi surfisti.
A sud di Kuta la spiaggia lascia il posto alla costa frastagliata della penisola di Bukit che termina nello splendido promontorio di Ulu Watu. Qui la forza dell'oceno indiano si scontra contro nere roccie vulcaniche; alte e poderose onde rumoreggiano continuamente contro le scogliere. Nel punto dove il mare incontra la terra i balinesi hanno costruito un tempio, in alto, sopra le onde, sulla cima di questo magico promontorio. Un posto emozionante, carico di energia, dove l'occhio non trova riposo. A poca distanza dalla ruvida roccia, intrepidi e cazzuti surfisti sfidano onde molto piu' alte di loro. Mi ritrovo totalmente immerso nella affascinante bellezza del luogo, tanto da ritornarci più volte nel corso della permanenza sull’isola.
In direzione opposta rispetto alla penisola di Bukit si trova invece Ubud, una cittadina quasi al centro dell'isola. Lussureggiante vegetazione tropicale, umidita', risaie e templi sono le caratteristiche di questa zona. E' la capitale culturale dell'isola, il buen retiro di artisti, soprattutto pittori, di fama internazionale. Ogni giorno le serate si riempiono con i suoni e i colori di danze e spettacoli teatrali tradizionali. Rispetto alla frenesia di Kuta qui ci si ritrova catapultati in una nuova dimensione, dominata dalla tranquillita'. Moltissime catene alberghiere di lusso hanno costruito resort a Ubud; splendide costruzioni celate dalla vegetazione dove zelante personale in livrea si occupa della cura del corpo e della mente dei propri clienti: trattamenti di bellezza, terapie di vario genere, meditazione, yoga, corsi di pittura e di cucina. Qui puo' capitare di perdersi tra le risaie, come e' successo a me, e di vedersi indirizzati sulla strada corretta da una anziana contadina che in cambio della cortesia non chiede nulla se non un sorriso. Ubud e' magnetica: le atmosfere e la gentilezza degli abitanti potrebbero attirare per settimane.
Percorrendo in scooter le strade di questa zona ci si imbatte spesso in processioni religiose: lunghe file di balinesi vestiti in abiti tradizionali - uomini, donne, bambini - portano offerte al tempio, tra musiche e profumati incensi. Spettacoli ai quali non si resta indifferenti. Le donne dai lunghi e lisci capelli neri, con i fiori tra le ciocche, sembrano uscite direttamente da un quadro di Gaugin. La religione e' un aspetto costantemente presente nel quotidiano di Bali; le offerte di fiori, frutta e le bacchette di incenso punteggiano gli ingressi di case e negozi.
Le mie esplorazioni dell'isola mi portano poi sulla costa est, ad Amed, un grazioso villaggio di pescatori. Qui il paesaggio è caratterizzato da una successione di piccole calette di sabbia nera, palme da cocco e dalle tipiche imbarcazione da pesca di legno laccato bianco: i trimarani. I villaggi sono minuscoli e si alloggia in bungalow direttamente sulla spiaggia oppure in alto sulle scogliere. La temibile cima del Gunung Agung, un vulcano attivo, veglia su questa costa; le ripide pendici del suo cono si gettano a capofitto fino a toccare le acque cristalline del mare. Poco lontano da una delle spiaggie di Amed mi immergo e scorgo il relitto di una vecchia nave da guerra giapponese. E' ormai quasi interamente sommersa dalla sabbia, ma quel poco che spunta e' meravigliosamente tempestato di coralli. Centinaia di pesci colorati giocano a nascondino tra le pieghe di metallo arruginito e una stella marina si muove lenta sul fondo sabbioso.
Alla sera, seduto sotto la veranda del mio bungalow ascolto i rumori del mare e mi lascio accarezzare da una fresca brezza. Il mio soggiorno a Bali non e' ancora terminato ma nella mente si affollano gia' i ricordi dei molteplici volti di questa terra: il traffico asfissiante di Denpasar e Kuta, i templi battuti da mare e vento a Ulu Watu e Tanah Lot, le danze e le processioni religiose di Ubud, le torride notti in discoteca, le spiaggie, le onde, la lussureggiante vegetazione tropicale, i sorrisi dei balinesi, il dolce profumo dell'incenso. Bali e' tutto questo. Turismo, misticismo, rifugio tropicale, surf, arte. Fantastica.
Rene'

domenica 13 luglio 2008

Cime tempestose

Il viaggio da Jepara (la citta' dove vivono gli svedesi) a Probolinggo e' un perfetto esempio di "spostamenti lenti in pullman" in Indonesia. Un altro... Penserete voi. E' la regola... Rispondo io. Impiego quasi 13 ore per fare 250km di strada. Sfiancante. Il fatto di trovarsi su Java, l'isola piu' popolata del paese, non ha fatto altro che peggiorare le cose.
Il bus, senza aria condizionata, e' stipato all'inverosimile e, come tradizione, non ha punti di sosta fissi ma si ferma quando qualcuno vuole scendere o salire. E non ci sono solo passeggeri. Per lunghi tratti si e' in compagnia di gruppi di ragazzi che cercano di raccattare qualche soldo suonando la chitarra o vendendo bibite, arachidi e snack vari. Come unico straniero sul bus vengo subissato dagli "hello mister!" degli indonesiani.
Arrivato a Probolinggo mi faccio scaricare di fronte ad un hotel, sulla strada principale, e mi sistemo in una camera economica.
Il giorno successivo prendo un taxi collettivo (pulmino) e salgo a 2000m fino ai bordi del cratere del vulcano Bromo. E' una delle principali attrattive turistiche di Java e ci sono parecchie guesthouse nel piccolo villaggio ai margini della caldera.
L'aria fredda e una sveglia puntata alle 3.30 mi costringono a letto presto. Quando lo squillo del cellulare mi rianima mi trovo alle prese con una spasmodica ricerca di vestiti caldi: camicia, maglione, cappellino di lana, persino la giacca invernale. Sembro in procinto di partire per una spedizione alpina.
Mi butto in strada alla ricerca di un passaggio per il punto panoramico dal quale ammirare l'alba, posto a 2600m di altezza. Di fronte alla guesthouse, c'e' un gran movimento di jeep e 4x4 ma i veicoli sono gia' tutti pieni. In lontananza addocchio un ragazzo indonesiano in sella ad una moto. Appena mi avvicino mi offre un passaggio. In moto? Ma è sicuro? chiedo. No problem mister, mi rassicura. Negozio la tariffa e salto su. La strada scende all'interno del cratere: e' buoio pesto, fa freddo e c'e' una nebbia che impedisce di vedere a piu' di 10m di distanza. La carreggiata e' una striscia di sabbia nera, vulcanica. Ci si muove in difficolta'. Il ragazzo deve mettere giu' i piedi un paio di volte e fermare la moto perche' le route si bloccano nella sabbia finissima. Inizio a dubitare che ce la faremo. Ieri pomeriggio, ad occhio, il cratere mi sembrava largo almeno 2 o 3 kilometri. Ad un certo punto la strada inizia a salire. Stiamo lasciando la caldera e abbiamo iniziato ad arrampicarci su uno dei bordi. La bianca nuvola di vapore acqueo e zolfo lascia il posto ad una volta celeste serena illuminata dalle ultime stelle della notte. La pelle del viso ha perso sensibilita' e ho la fronte e le sopracciglia imperlate di freddissime gocce d'acqua. Cerco di nascodermi quanto piu' possibile dietro il corpo del guidatore, per minimizzare l'impatto dell'aria gelida.
Dopo una interminabile serie di tornanti raggiungiamo, infine, il parcheggio del viewpoint. Mi sparo un caffe' bollente e mangio un pacchetto di wafer che avevo nascosto nella giacca. Sono le 5 e siamo prossimi all'alba.
Il punto panoramico e' gremito di persone. Qualcuno si e' lasciato ingannare dalla latitudine equatoriale e si aggira in pantaloncini e sandali; cerca di non darlo a vedere, ma sta soffrendo terribilmente. A 2600m di quota fa freddo in tutto il mondo, soprattutto se non e' ancora sorto il sole.
Il primo spicchio strizza l'occhio alle 5.30, illuminando progressivamente la caldera e le pendici del vulcano. E' una vista spettacolare. All'interno del cratere ci sono altri due coni vulcanici, di dimensioni minori, di cui uno attivo. Il denso fumo bianco che esce dalla sommita' e' un flusso inarrestabile. In lontananza, ben oltre il largo cratere del Bromo, il cono perfetto di un altro vulcano si innalza oltre i 3000m. Ogni dieci minuti, con la precisione di un orologio svizzero, spara delle boffate di fumo nero che, salendo verso il cielo, prendono la forma di un fungo.
Il paesaggio e' surreale. Il cratere del Bromo e' ancora ricoperto da una fitta nuvola bianca, che nasconde la distesa di sabbia nera; di tanto in tanto la nuvola, come l'acqua di un bicchiere riempito fino all'orlo, trabocca e si riversa sul villaggio ai bordi del cratere. Le punte dei due piccoli vulcani, al centro, spuntano dalla bianca distesa; la spessa fumarola di zolfo sale in verticale verso il cielo e in lontananza un alto vulcano, dai ripidi pendii, veglia sul panorama. Se si esclude il verde dei campi e della foresta che circondano il cratere del Bromo si potrebbe avere la sensazione di essere atterrati su un pianeta nello spazio. Il nero e il grigio sono i colori predominanti di questo paesaggio.
Non sono disperso nell'universo; sto semplicemente ammirando un altro aspetto della tumultuosa, selvaggia, viva e imprevedibile terra indonesiana.
Rene'

mercoledì 9 luglio 2008

Viaggio al centro di Java

Imperativo: lasciare Jakarta; allontanarsi; dimenticare. Recarsi a Jodja e immegersi nella citta' universitaria piu' grande dell'Indonesia. Cultura, dopo la follia.
Ritorno ad un ritmo piu' consono al viaggio: sveglia di buon ora e sightseeing prima che le temperature tropicali rendano insostenibile ogni spostamento. Passo giorni tranquilli a scoprire bellezze architettoniche come la stupa di Borodbur (la stupa buddista piu' grande al mondo) e le rovine dei templi induisti di Prambanan, seriamente danneggiate da un recente terremoto.
Mi trovo al centro dell'isola di Java e, al contrario di Jakarta, la regione e la citta' di Jodja sono ricche di attrazioni turistiche: palazzi reali, musei, spettacoli culturali, esibizioni di artigianato. Di sera le strade di Jodja si riempiono di studenti universitari e scolaresche in gita, che si mischiano ai turisti nella frenetica ricerca di economici souvenir. Ristorantini ambulanti, bancarelle e riscio' a pedali affollano ogni spazio libero e l'aria, gia' umida di suo, si carica ulteriormente di odori e sapori.
La citta' di Solo, a 1 ora di treno da Jodja, non ha lo stesso appeal della sua illustre vicina, ma vale comunque una visita per ammirare le piantagioni di the e i templi induisti che caratterizzano le verdi colline a est dell'abitato. Sull'isola di Java immergersi nella natura per scoprire angoli incontaminati non e' altrettanto facile come nella selvaggia e immensa Sumatra: la densita' della popolazione e' molto alta e sull'isola si contano oltre 120 milioni di abitanti.
Raggiungo poi la costa settentrionale dell'isola e mi fermo a Jepara dove incontro gli imprenditori svedesi, padre e figlio, conosciuti a Singapore. La zona pullula di mobilifici e saloni d'arredamento; dev'essere la Brianza dell' Indonesia. Ho giusto il tempo per passare una notte perche' il mattino successivo sono gia' su un battello in direzione dell'arcipelago di Karimunjaya, una delle poche zone ancora inesplorate di Java. Gli svedesi mi ospiteranno al loro resort!
Il vecchio traghetto, arrugginito dagli anni e dalla salsedine, arranca in un mare abbastanza mosso. Resto ancorato per 6 ore alla mia poltroncina, incapace di alzarmi, camminare e mangiare. Prima di arrivare nel resort di proprieta' degli svedesi devo ancora sorbirmi oltre 1 ora di trasferimento su una barca di legno, lunga una decina di metri. Disteso sul tetto, insieme ad un gruppo di operai diretti al resort, scruto le prime stelle di questo caldo crepuscolo nei mari del sud.
Arrivato sull'isola, privata, vengo sorpreso dal lusso di una struttura alberghiera a 5 stelle. Nel mio bungalow a pianta ottogonale, all'ombra di palme da cocco, c'e' l'aria condizionata, la TV via satellite, un grande letto matrimoniale e il bagno con l'acqua calda. Al ristorante c'e' gia' un piatto caldo e una birra ghiacciata che mi aspettano; accoglienza regale!
Il giorno dopo mi metto a curiosare nei paraggi. In meno di 1 ora ho percorso l'intera circonferenza dell'isola e ho potuto appurare che, oltre a Lax - il proprietario - suo fratello e un gruppo di operai, sull'isola ci sono solo io! Il resort e' ancora chiuso e l'attivita' di manutenzione e' frenetica in vista della prossima riapertura.
Trovarsi da soli su una minuscola isola tropicale: paradiso o trappola? Probabilmente la risposta e' legata al periodo di permanenza. Nel mio caso, restandoci solo 2 per giorni, le sensazioni sono estremamente positive. Un tramonto infuocato, come le zanzare che mi massacrano le caviglie, ha chiuso una giornata oziosa, talmente oziosa che il primo bagno l'ho fatto alle 4 del pomeriggio. Mi sono immerso nei pressi del molo, circondato da un branco di sardine; ho nuotato tra migliaia di esseri luccicanti che si muovevano in perfetta sincronia: stupefacente.
Alla sera un'altra ottima cena, insieme a Lax e suo fratello. Un unico rammarico: l'indomani e' gia' previsto il rientro a Java. Arrivederci al Kura Kura Resort (www.kurakuraresort.com).
Rene'

lunedì 23 giugno 2008

Paura e delirio a Jakarta

Mi prendo un giorno intero per recuperare lo stress del lungo viaggio in pullman. A Bandar Lampung non c'e' nulla da vedere se non una piazza con un monumento di elefanti che giocano a calcio e un punto panoramico su una collinetta; da qui si vede quello che resta del vulcano Krakatoa e, oltre, la costa dell' isola di Giava, la prossima destinanzione.
Jakarta e' a un tiro di schioppo; la raggiungo facilmente con un minibus. Lo stretto che separa Sumatra da Giava e'... stretto... e in traghetto ci si mette solo 1 ora e mezza a coprire la distanza.
Jakarta e', come dicono gli anglosassoni, overwhelming. La citta' piu' grande del sud est asiatico. Una giungla metropolitana di oltre 9 milioni di abitanti, che cresce all' impazzata. Uno sviluppo demografico e urbanistico incontrollato. Arrivo in un caldo giovedi pomeriggio e, dopo essermi sistemato, mi siedo in uno dei tanti ristorantini che si affacciano sulla animata Jalan Jaksa, la strada dei backpacker.
Qui conosco un ragazzo indonesiano. Mi aiuta a decifrare il menu e si ferma poi a chiaccherare. Fa l'event coordinator al Ritz Carlton di Jakarta e conosce un italiano pilota di formula GP2 Asia (tra l'altro ho visto le gare in Malesia prima del GP di F1) che si chiama Marco Bonalumi e che si fa sentire al cellulare di Anton, l'indonesiano, mentre siamo al ristorante. Anton ad un certo punto me lo passa e salta fuori che sto Marco e' di Lecco (23 anni); sta chiamando dal Bahrein!
Sono abbastanza stanco ma mi lascio convincere ad una serata fuori. Si va al Red Square vodka bar. Ragazze cubo ballano scatenate e Anton mi paga da bere (4 vodka redbull con pochissima redbull e 2 shots di tequila); io faccio lo spacchiuso e bevo lo shot in un nano secondo (mentre lui sorseggia) esclamando "I am a tequila professional" (memore delle nottati in italia con la mitica Cuervo Reposado, ora sostituita con il chupito rum e pera). Nel corso della serata la svolta. Mi accorgo che Anton e' gay... Mi parla a un dito dalla faccia e ho l'impressione che abbia cercato di baciarmi!
Usciamo dal bar alle 2.30 che non ci reggiamo piu' in piedi. Sul taxi gira tutto; si finisce nel suo appartamento. Lo stronzo mi chiude dentro. Io mi rintano al bagno e foppo due volte al cesso (mentre lucidamente penso "cazzo sto vomitando nel cesso a casa di un culattone indonesiano") e mi addormento, sfatto, sul letto. Non e' successo nulla, per fortuna. Anche lui dormiva. Poi alle 5.30, svegliato dal richiamo del muezzin tento la fuga dal balcone sul tetto della casa sottostante (avevo allertato i vicini, che dormivano sul loro balcone, tirando monetine sul tetto in lamiera e dicendo "I need a taxi"... chissa' che cazzo avranno pensato...).
Ho gia' una gamba sul tetto ma lui mi blocca. Io gli dico che cazzo ora vado a casa. Lui finalmente mi libera pero' insiste nel riaccompagnarmi a casa e nel taxi tenta un ultimo patetico approccio con io che gli dico che non mi piacciono i ragazzi non lo hai capito cazzo!
Il giorno dopo mi sono svegliato alle 13 con ancora il cervello in pappa. Sul cell ho 2 nuovi numeri di ragazze indonesiane delle quali non ricordo il nome (lo scopriro' scorrendo la rubrica). Una sembra la sorella della donna cannone l'altra dovrebbe essere OK. Che faccio le chiamo?
Ragazzi, serata mattissima. Ho speso l'equivalente di 5 euro per un devasto totale.
Sono sopravvissuto...
Rene'

martedì 17 giugno 2008

Il mega trasferimento

Contatto Riki per un giro di Bukittinggi. Ci incontriamo alle 11 di una domenica mattina nel parco in mezzo alla cittadina, a quell'ora affollato di famiglie a passeggio e bambini schiamazzanti. Il mio nuovo amico insiste per una visita a casa sua, che si trova in un piccolo paese a qualche km da Bukittinggi. Accetto.
Giunti sul posto faccio la conoscenza della famiglia e ben presto mi trovo un piatto di riso e pesce fritto sotto i denti: accoglienza all'indonesiana. La casa e' composta da 3 stanze, una cucina ed il soggiorno. Ci sono pochi mobili (nel soggiorno c'e' solo la TV...) e il pranzo lo consumiamo seduti, a gambe incrociate, su una stuoia. Dopo una tazza di caffe' facciamo un giro del villaggio e visitiamo uno zio di Riki che abita in una bellissima casa tradizionale di legno con un tetto che mi ricorda lo scafo di un veliero. Tutta la famiglia e' al lavoro nelle operazioni di restauro del vecchio edificio.

Tornati a Bukittinggi visitiamo un'area della citta' dove i giapponesi, nel corso della seconda guerra mondiale, hanno costruito una estesa serie di bunker e gallerie sotterranee. E' ormai pomeriggio inoltrato e avrei bisogno di un break, di un attimo di riposo in albergo, ma non riesco proprio a svincolarmi dalla compagnia di Riki (mollami!). Chiudo la giornata invitando il mio nuovo amico a cenare in un ristorante all'aperto del mercato notturno. Il clima e' ora piacevolmente fresco (Bukittinggi si trova a 1500m di altezza) e le strade si sono riempite di gruppi di ragazzi che suonano la chitarra.
Il mattino successivo, alle 10, mi imbarco su un bus alla volta di Bandar Lampung, citta' posta all'estremita' meridionale dell'isola di Sumatra. Sulla la carta la distanza da Bukittinggi sembra essere intorno a 1000km. Sto per sciropparmi, in lunghezza, quasi due/terzi di Sumatra. I tempi del viaggio sono imprevedibili.
Un'ora dopo la partenza siamo gia' fermi per un guasto meccanico. Il pullman e' entrato troppo violentemente in una buca e si deve essere scassato qualcosa. Ripartiamo dopo un'ora e mezza di smartellamenti nell'area del semiasse anteriore.
Sul bus la mia posizione non e' delle migliori; mi trovo nella fila immediatamente prima del bagno; significa avere un sedile che non si reclina e aria maleodorante. Sono l'unico straniero in viaggio e, quindi, al centro dell'attenzione. Verso sera il corridoio centrale si è trasformato in un immondezzaio: una giornata di pasti e di snack hanno lasciato il segno. Ci fermiamo in un ristorante per la cena e scopro con sorpresa che quasi tutti i passeggeri approfittano della sosta per lavarsi e rinfrescarsi; sapone, salvietta, un cambio di vestiti e risalgono in pullman come nuovi; quello che si sta progressivamente sporcando sono solo io... Nel corso della sosta qualcuno si e' anche preso la briga di pulire il corridoio; meno male.
La notte procede a sobbalzi, come quelli della strada, che interrompono un sonno gia' leggero sollevandoti dal sedile. Sumatra e' un'isola gigantesca, dove le citta' sono separate da centinaia di km l'una dall'altra; in mezzo ci sono colline, laghi, vulcani, foreste e campi. E' una zona selvaggia anche se l'integrita' della natura e' messa costantemente in pericolo da disboscamenti e trivellazioni in cerca di petrolio.
Il mattino del secondo giorno arriviamo a Palembang, una grossa citta' nell'area sud-orientale dell'isola. La sosta e' breve; giusto il tempo di far scendere alcune persone e di caricare nuovi passeggeri; il bus e' sempre pieno. Il viaggio scorre lento. A Sumatra non ci sono autostrade e le poche strade che attraversano il territorio sono molto trafficate e alquanto scassate. Verso mezzogiorno facciamo una pausa; il pullman si e' fermato lungo la strada accanto ad alcune bancarelle che vendono frutta. I miei compagni di viaggio insistono nel farmi provare il durian, un frutto dalla pelle spessa e appuntita, grosso quanto un melone e dalla polpa puzzolente: qualcosa che ricorda un uovo marcio o la puzza di piedi. E' dolcissimo, non male dopotutto, ma e' da mangiarsi con il naso tappato. Prima di ripartire mi regalano un sacchetto di duku, un frutto grande poco piu' di una noce, anche questo da sbucciare, dalla polpa trasparente, dolce e succosa.
Il pullman attraversa ora una vasta landa pianeggiante. Campi a perdita d'occhio; il colore giallo delle lunghe spighe di riso che contrasta con le nuvole nere di un temporale che rumoreggia, lontano, sulla linea dell'orizzonte. Una colonna di TIR davanti a noi solleva ondate di polvere. E' un pomeriggio bollente. Nessuna citta' in vista. Arrivero' mai?
All'imbrunire il pullman si ferma ancora, questa volta per la cena. L'autista mi spiega che Bandar Lampung e' poco distante; ancora un paio di ore e ci siamo. Mentre i passeggeri si lavano io mangio un piatto di riso fritto; probabilmente sono l'unico che sta iniziando a puzzare.
Ore 21: case e negozi si fanno piu' frequenti lungo la strada. Stiamo per arrivare in citta'. L'autista in seconda mi si avvicina e mi spiega che non si fermeranno alla stazione: il pullman prosegue fino a Jakarta. Mi chiede dove voglio scendere. Non lo so, rispondo; poi aggiungo, vicino ad un albergo va bene.
Ed e' cosi che il bus si ferma, alle 21.30, dopo 35 ore di viaggio, nei pressi di un grosso albergo. Non ho la più pallida idea di quale sia la mia posizione; se sono in citta' o in periferia. Entro e addocchio i prezzi; troppo alti. Faccio chiamare un taxi che mi porta verso il centro, in un albergo più economico. Appena entrato in stanza crollo sul letto. Ho proprio bisogno di starmene sdraiato almeno per una decina di ore.
Rene'