giovedì 27 marzo 2008

The wild wild east (2)

Mi sveglio alle 10 con un forte mal di testa e con accanto la mia conoscenza notturna. Una ragazza allegra e sorridente - al contrario di me che sembro il cugino di Frankenstein. Peccato che in inglese sappia dire solo Yes e No e che io non abbia ancora imparato il cambogiano. Risultato: comunicazione azzerata. "Vuoi fare colazione?" Risposta: yes. "Vuoi andare a casa?" Yes. Siamo in una strada senza uscita. La saluto mentre si allontana su un moto-taxi.
Per il resto della giornata prevedo un tour purificatore alla scoperta dei monasteri buddisti della citta'.
Phnom Penh e' molto simile ad Hanoi: confusione, aree trascurate o degradate, un po' di sporcizia in giro, case basse, alte al massimo 3 piani e tanti motorini spernacchianti. Si respira un clima di anarchia e di assenza di regole; come altro descrivere se no una citta' dove ci sono ristoranti che sfornano pizze alla maria e dove in albergo ti offrono da fumare? Delirio, come quello, agghiacciante che mi sveglia in piena notte nello squallor-ostello. Qualcuno sta urlando, in italiano, "perche' questa merda, perche' questa merda?" con un perche' allungattissimo e una merda che finisce in pianto. Ho la pelle d'oca. Il ragazzo e' nella stanza di fianco alla mia. Grida, piange e vomita. Ad un certo punto esclama "voglio allucinazioni vere!". E' decisamente fatto. Mentre sto ancora pensando a cosa fare (esco a vedere? busso alla stanza? gli grido di smettere?) il delirio si placa e posso tornare a dormire. Un segnale che e' ora di alzare le chiappe e di lasciare la zona.
Concludo l'esperienza nella capitale visitando gli edifici dove il dittatore Pol Pot, durante il sanguinoso regime dei Khmer Rouge, deteneva i prigionieri prima di trasferirli ai campi di sterminio (killing fields). Il carcere e' una ex-scuola dove le aule sono state trasformate in celle e luoghi di tortura. Appese alle pareti ci sono lunghe sequenze si fototessere con i volti delle persone passate di qui; impressionante. Di seguito visito un grande mercato dove si trova di tutto, dai vestiti griffati contraffatti ai CD e DVD pirata, dagli elettrodomestici ai pezzi di ricambio per auto e moto; durante i pazzi anni 90 (periodo di incertezza politica e colpi di stato) qui si commerciavano anche armi e droga. Mi limito ad acquistare una felpa della Puma, probabilmente fallata o, come si dice da noi, "cascata da un camion".
Anche senza un approfondito studio o ricerca sul Paese si puo' facilmente intuire che in Cambogia c'e' una corruzione dilagante. La classe media non esiste e si capisce da come la gente si sposta: in motorino oppure con Toyota Landcruisers; queste ultime guidate da ufficiali di polizia o dell'esercito che, nominalmente, percepiscono alcune centinaia di dollari di salario mensile. C'e' molta diseguaglianza sociale e poverta'. Il sistema economico viene in larga parte alimentato da denaro proveniente dall'estero, da enti sovranazionali come la Banca Mondiale e l'ONU e dal circuito NGO, ma probabilmente solo una fetta di questo viene usato per scopi umanitari mentre il resto si incanala, su altre strade, verso le tasche di politici e amministratori locali. Vi faccio un esempio: Siem Riep, nei pressi delle rovine di Angkor Wat, e' il principale centro turistico del Paese. Ogni anno, due milioni di turisti passano da queste parti a visitare le magnifiche rovine immerse nella giungla. La strada che porta verso la Thailandia e Bangkok (distante non piu' di 400km) e' da anni un enorme cantiere, pressoche' fermo. Sul lato cambogiano la carreggiata e' quasi interamente sterrata. Domanda: perche' non esiste una autostrada tra Siem Riep e Bangkok (che e' il principale punto di ingresso dei turisti nel sud-est asiatico)? Perche' c'e' una compagnia aerea cambogiana, detentrice di un quasi-monopolio dei voli su Siem Riep, che non ha il ben che minimo interesse verso la costruzione di una strada e paga quindi mazzette per rallentarne i lavori.
Un altro esempio di "selvaggia" Cambogia? Alla reception della guesthouse di Siem Riep (dove mi sto per recare) c'e' una serie di fotografie di persone intente a sparare; chiedo informazioni. Il gestore organizza escursioni a poligoni di tiro dove e' possibile utilizzare pistole, AK-47 e bazooka (secondo alcuni anche un carrarmato, ma mi puzza di leggenda). La cosa triste e' che si puo' sparare anche bersagli mobili precedentemente acquistati al mercato (oche e galline). Malato.
Rene'

sabato 22 marzo 2008

The wild wild east (1)

Mi trattengo un giorno a Kratie per poter vedere la maggiore attrazione turistica del luogo: i delfini d'acqua dolce del Mekong. A meta' di una calda mattinata esco su una piccola barca a motore. Il barcaiolo si muove verso il centro del fiume - veramente largo in questo punto - e, giocando con la corrente, mi permette a piu' riprese di avvistare gruppi di 2 o 3 delfini che lambiscono la superficie dell'acqua e sbuffano prendendo fiato. Rispetto ai loro fratelli di mare non hanno il muso allungato: la testa e' tozza, quasi bianca, a forma di palla e le dimensioni del corpo, probabilmente, sono minori. E' emozionante poterli vedere nuotare e respirare a qualche metro dalla barca!
L'indomani mi sposto a Phnom Penh, la capitale della Cambogia. Al ristorante di fronte al mio albergo (a Kratie) mi consigliano di prendere un taxi e mi assicurano che ci penseranno loro a trovarlo: "e' piu' veloce del bus. Tu vieni qui alle 6.30 domani mattina, fai colazione e poi alle 7 ti passa prendere il taxi". Ubbidisco. Mi presento puntuale; mangio. Ore 7: niente taxi. Ore 7.30: ancora nulla. Ore 8: chiedo informazioni e mi dicono che stanno aspettando ancora una persona per riempire il taxi. Ore 9: arriva una macchina, mezza vuota; l'autista dice che e' disposto a partire ma che devo pagare il doppio perche' ci sono dei posti non occupati; rifuto. Ore 9.30: niente. Ore 10: sollecito il cameriere per far chiamare il tassista e sbloccare la situazione. Ore 11: mi faccio ritornare i soldi anticipati ieri, ringrazio ironicamente per il disservizio e mi dirigo da solo verso l'area di parcheggio dei taxi. Rene', benvenuto in Cambogia!
Dopo solo 15 minuti sono su una macchina insieme ad altre persone diretto verso un paese dove dovro' cambiare taxi per Phnom Penh. Sulla seconda tratta batto il record mondiale di passeggeri accomodati su una berlina (Toyota Camry, un incrocio tra un Audi 80 e una Fiat Croma): siamo in 8, autista compreso (record precedente: 7 persone su una Lada in Kirghyzstan). Dietro siamo in 4 adulti (2 uomini e 2 donne); davanti c'e' una coppia sul sedile anteriore mentre il tassista divide il suo spazio con una ragazza: lui e' seduto con una chiappa sul sedile e con l'altra sul freno a mano e assume una posizione di guida diagonale; ammirevole lo sforzo per l'utilizzo della frizione, data la distanza del sedere dai comandi. Vi ricordate il film Ace Ventura? Jim Carrey guida con la testa fuori dal finestrino; nel mio caso la posizione dell'autista e' simmetrica: testa al centro dell'auto e braccia, allungate verso sinistra, lontane dal corpo.
La persona accanto a me parla bene inglese: dice di lavorare ad un progetto internazionale (di una agenzia dell'ONU) volto a scovare prodotti alimentari contraffatti, dove il "made in" stampato sull'etichetta non corrisponde all'effettivo luogo di produzione del cibo. Si scusa per il modo disumano nel quale stiamo viaggiando e aggiunge che, purtroppo, ci troviamo in un paese sottosviluppato.

Lake Ghetto

Arrivato a Phnom Penh mi sistemo lungo le sponde orientali del lago al centro della citta'. E' uno specchio d'acqua abbastanza grande, ricoperto da file, parallele, di vegetazione verde (water spinach, mi dicono). Visto dall'alto il tutto appare come un grosso labirinto. All'interno, piccole barche si muovono lentamente e raccolgono la verdura.
Al momento della registrazione alla guesthouse (chiamata Same Same but Different) mi chiedono se ho bisogno di erba... Le camere sono terribili, sicuramente tra le peggiori viste nel corso del viaggio; sono celle dove ci sta a malapena un letto ad una piazza e mezza, appoggiato a 2 dei 4 lati della camera; intorno, c'e' uno spazio di 30cm grande quanto basta per incastrarci lo zaino. In un angolo c'e' un ventilatore e sulla parete che da verso l'esterno c'e' un piccolo buco che ha forse lo scopo di apportare maggiore ventilazione alla cella; le pareti sono di legno compensato spesso 5mm. Di case come queste ce ne saranno almeno 10 lungo le sponde del lago; si appoggiano per un terzo sulla terra ferma e per due terzi si spingono nell'acqua, sorrette da palafitte. Sono edifici stretti, a 2 piani, quasi interamente di legno, con un corridoio centrale e camere disposte su ambo i lati. Il loro insieme forma il temibile Backpacker Ghetto di Phnom Penh. Lowlights: sporcizia, puzza, squallore, spacciatori e moto-tassisti assillanti. Highlights: prezzi competitivi; socializzazione; tramonti sul lago.

Tonite is the nite

Si e' fatta sera. Raggiungo le sponde del Mekong per la cena. Passeggiando per le strade di Phnom Penh inizio ad accorgermi che qualcosa sta cambiando nel panorama del mio viaggio: turisti occidentali, di una certa eta', camminano mano nella mano con giovani cambogiane... Arrivo all' Herb Pizza, il locale scelto per la serata, dove fanno la pizza alla maria; ci vado in ottica di ricerca: voglio vedere se qualcuno la mangia veramente. Dai tavoli del locale avvisto Rusty, un ragazzone australiano conosciuto 2 giorni fa sul minibus tra Laos e Cambogia. Fissiamo una punta per le 23 allo Sharky's. Io continuo le mie esplorazioni e finisco al Walkabout: locale ad angolo, aperto su due lati, luminoso, biliardo al centro e file di avventori accalcati al bancone. Mentre sorseggio la mia birra conosco D, cinquantenne veneto; da una vita fa 6 mesi in Italia e 6 mesi in Asia "perche' in Italia mi annoio, siamo bigotti, i politici mi fanno schifo, c'e' il Papa mentre qui e' piu' bello, non c'e' criminalita', ci si diverte, c'e' allegria..." e, aggiungo, ci sono le donne. Dopo una trentina di minuti a parlare del piu' e del meno, D, con le mani su una tipa che si e' inserita tra di noi, esclama "seeeee, ma io stasera c'ho voglia di trombare!". Guardo le lancette: e' ora di raggiungere Rusty. Lo trovo attaccato al bancone dello Sharky's insieme ad un obrobrio che sembra un transessuale mal riuscito. Il locale e' molto simile a quei discobar luci e neon che potresti trovare anche da noi, in una umida e fredda notte invernale padana; gli avventori, ovviamente, no. Dovremmo essere, a seconda della mia guida turistica, in uno dei migliori locali di Phnom Penh... Il posto e' affollato: occidentali versus cambogiane; game on. Finiamo le birre e lasciamo lo Sharky's tra gli sguardi maliziosi di un gruppo di ragazze. Puntiamo verso l'Heart of Darkness - nome letterario che evoca tenebrosi paesaggi tropicali - la discoteca per eccellenza di Phnom Penh. Visto che e' abbastanza presto e non siamo ancora adeguatamente preparati, decidiamo di ispezionare un altro locale lungo la strada. Ne scegliamo uno basandoci semplicemente sulla maggiore luminosita' dei neon. Dopo esserci seduti su degli alti sgabelli intorno ad un tavolino circolare veniamo subito accerchiati da un gruppo di ragazze dai modi molto espliciti: una mano sul pacco, l'altra chiusa a pugno vicino alla bocca a simulare... ehmm... sesso orale. "Slowly, slowly" ci dicono e con un movimento della testa indicano il piano superiore del locale. Scoppiamo in una rumorosa risata e ordiniamo due birre. Le ragazze, appena capiscono che non c'e' trippa, si spostano verso i nuovi avventori che nel frattempo sono entrati nel bar. Dopo un breve scambio di opinioni io e Rusty concludiamo che non esiste un locale a Phnom Penh senza ragazze "al lavoro".
E' l'ora dell' Heart of Darkness. Un scritta all'esterno del locale avverte: no drugs and guns allowed. Un meticoloso poliziotto privato mi fa depositare la borsa e custodisce, separatamente, il coltellino svizzero. All'interno si ripete una scena gia' vista: tanti occidentali, qualche ragazzo cambogiano, molte donne. Hip hop a palla. Si balla. Rusty inizia a scattare foto a destra e sinistra e viene subito ripreso da un buttafuori. Io mi infilo in un gruppo di ragazze e ballo con la piu' scatenata, che mi arriva si e no tra l'ombelico e l'ascella. Sembra una Missy Elliot in miniatura.
Dopo un po' ribecco Rusty al bar e, birre in mano, tentiamo una analisi del locale. Di che tipo sono le ragazze in questa discoteca? Oneste o lavoratrici? Non ci resta che provare e scoprirlo sulla nostra pelle. Rusty alza bandiera bianca dopo un'altra ora e si allontana; fissiamo una mezza punta per domani all'ora dell'aperitivo. Io insisto su Missy e in breve tempo mi trovo su un moto-taxi, a tre, in direzione dello squallor-ostello. Sono le 2 passate e questa notte non saro' l'unico a dormire poco. Mura di compensato...
Rene'

giovedì 13 marzo 2008

Seguendo la corrente

Ultima stazione in Laos: Si Pha Don, che si traduce in 4 thousand islands. Migliaia di isolette, alcune grandi poco piu' di un cespuglio, che ricoprono il tratto di Mekong al confine tra Laos e Cambogia. Sonnolento e' l'aggettivo giusto per questo posto, dove la maggior parte degli abitanti ha abbandonato la pesca per dedicarsi allo sfruttamento del turista. Come gia' vi raccontavo, qui si viene per non fare nulla: la parola d'ordine e' relax. Nel proprio bungalow in bambu', stretti nell'avvolgente abbraccio di una amaca, le giornate trascorrono lente come la corrente del Mekong, tra libri, pisolini, spinelli, birre e "happy" fruit shakes. Il momento clou, il climax, lo si raggiunge all'ora del tramonto, quando il sole si incastra tra due basse colline all'orizzonte, colorando prima di arancione e poi di un viola intenso un'ampia ansa del Mekong. E' allora che la mano passa da una ghiacciata bottiglia di Beerlao alla boccetta di spray anti-zanzare, in quello che e' uno dei pochi momenti di attivita' della giornata.
Chi vuole rompere il magico silenzio e la rilassata atmosfera di Si Pha Don si reca, dopo cena, al Sunset Bar, un locale che dovrebbe chiudere alle 22.30 ma che, in barba alla legge, abbassa le saracinesche all'uscita dell'ultimo cliente. E' qui che tra un Lao Mojito (distillato locale + menta) e una Beerlao incontro Stefan "the captain" simpatico quarantenne olandese che per 6 mesi all'anno pilota un traghetto lungo il Reno. Si sta godendo anche lui l'incantata atmosfera del posto ma si vede chiaramente che gli manca qualcosa. "Stefan, guarda che in termini di movida questo e' il massimo che puoi ottenere in Laos". Quando il livello alcolico si alza, i discorsi si incanalano verso un unico argomento: il sesso. "Rene', e' da 14 giorni che non sto con una donna, sto impazzendo!". Uellà, vecchio erotomane! Quando gli dico che e' da oltre 6 mesi che non vado con una tipa sbotta, "Nooooo! Non ci credo! Mi stai prendendo in giro! Ma come fai?". Semplicemente, gli spiego, non si è presentata l'occasione. Ai suoi occhi sono un alieno. Inizia quindi a raccontarmi le sue performance, quella volta che in Brasile la prostituta ha chiamato la polizia; in Colombia... wow, che donne; a Hanoi... hey, una diversa ogni sera. Ora pero' ha deciso che e' tempo di fermarsi e di prender moglie. "Sto andando verso le Filippine; li voglio trovare una ragazza che mi ami veramente, sposarla, vivere tra l'Olanda e le Filippine e poi trasferirmi li definitivamente. E' un posto bellissimo". Geniale, penso. Intanto un ragazzo si accosta al nostro tavolo spostando l'attenzione verso altri argomenti; c'e' una festa all'imbarcadero, un dj set, musica trance, cool.
Ci spostiamo li. Sulla piccola spiaggia c'e' anche un falo'. Bello. Una trentina di persone sta ballando, tra Mekong, sabbia e stelle. Il testosterone ha catturato anche l'ultimo neurone di Stefan che esclama "non ce la faccio piu', devo trovare una donna!". Lo sto perdendo... saluto e torno al mio bungalow.
L'indomani sono su un minibus diretto verso la Cambogia. Una signora italoamericana non la smette di parlare e sta tritando le palle a mezzo bus. Nel pomeriggio arrivo a Kratie, sempre lungo le sponde del Mekong, e le prime immagini che ho della Cambogia sono quelle di un piccolo paese abbastanza trascurato, sporco e, a tratti, degradato. Il confronto con il vicino settentrionale e' stridente: il Laos e' un giardino curato, una casa di legno dipinta in colori vivaci, il sorriso cordiale e la gentilezza della gente, la tranquillita' e il silenzio, l'assenza di traffico e inquinamento. Non ho ancora idea di come mi si presentera' il resto della Cambogia ma intanto quello che vedo sono cumuli di monnezza, vetri spaccati, cani randagi, edifici screpolati e motorini strombazzanti. L'unico punto in comune e' rappresentato dal placido e maestoso Mekong che, anche qui, si colora di magici riflessi dorati quando il giorno, lentamente, si trasforma in sera.
Rene'

lunedì 3 marzo 2008

I diari della motocicletta

Primo giorno. Pakse, Laos del sud. Affitto uno scooter per 4 giorni, un Suzuki 110cc, 4 marce, semiautomatico. Mi sento confidente. Ho voglia di esplorare questo pezzo di Laos.
Punto deciso verso il Bolaven Plateau, un altopiano dove si trovano coltivazioni di caffe' e piccoli villaggi. Appena abbandono Pakse, cittadina con un centinaio di migliaia di abitanti, la strada si fa via via meno trafficata. Il primo giorno, probabilmente perche' sono in pieno trip da neo-motociclista e carico di adrelina, attraverso tutto l'altopiano e finisco a Sekong; risultato: oltre 100km percorsi. Sono solo. Non e' una zona battuta da altri viaggiatori, probabilmente perche' bisogna dotarsi di un mezzo (auto o moto) per arrivarci. La mia serata finisce prestissimo; una volta calato il sole, la cittadina si e' fatta silenziosa; le strade buie e deserte. Al ristorante dove ho cenato il figlio della proprietaria e alcuni amici schiamazzano intorno alla tv: hanno intorno ai 10 anni e stanno facendo karaoke. Cerco di seguirli in alcune canzoni; si divertono e ridono prendendomi in giro.
Secondo giorno. La mattina successiva arrivo ad Attapeu e decido di fare una diversione verso il confine vietnamita. La strada e' totalmente deserta. Non deve essere un confine molto trafficato. La strada sale fino a raggiungere la cima di una collina. La vista e' spettacolare: giungla a perdita d'occhio. Emozionante. Non riesco pero' a raggiungere il confine - il mio obiettivo del giorno; sono gia' sotto la meta' del serbatoio e devo ancora tornare indietro ad Attapeu per la notte. Meglio non fare cazzate; non ho visto benzinai lungo il percorso e l'idea di pernottare in una giungla non mi entusiasma!



Attapeu e' come Sekong: tranquilla, tranquilla, tranquilla. A fatica trovo un ristorante aperto per la cena dove la cuoca e proprietaria si sta giostrando tra fornelli e allattamento del suo bimbo. Attacco bottone con una ragazza olandese e un signore belga che dice di vivere in Cambogia ma che non svela la sua professione. Enigmatico. Mangiamo bene e parliamo di massimi sistemi: global warming, il petrolio che prima o poi finira', il prossimo conflitto globale, le superpotenze del futuro... Lui e' chiaramente un complottista, convinto che nulla va dato per scontato, che c'e' sempre una seconda verita', celata tra fatti che sono sotto gli occhi di tutti. "Cosa pensi che facciano tutti questi americani in Laos? Servizi sociali? NGO? No! Sono agenti della CIA!". Piu' che darci certezze, solleva dubbi; le birre e il doppio whisky post-cena lo rendono vulcanico e io mi diverto a stuzzicarlo e provocarlo al momento giusto; lui abbocca: non vede l'ora di stupire e sconvolgerci.
Terzo giorno: mi muovo presto e raggiungo Pa'am. La strada e' sterrata e tosta; tanti piccoli sassi appuntiti che trasformano lo scooter in una trivellatrice. Massacrante. La cigliegina sulla torta e' il guado di un fiumiciattolo: tolgo le scarpe e guido la moto verso l'altra sponda, con i piedi nell'acqua, sui ciottoli, per mantenere l'equilibrio. Tutto ok.
Pa'am si trova lungo il sentiero di Ho Chi Minh, la strada che i vietnamiti utilizzavano per i rifornimenti e lo spostamento di truppe nel corso della guerra contro gli americani; un lungo corridoio che dal nord del Vietnam portava fino a sud, passando anche per Laos e Cambogia. Ci dovrebbero essere ancora molti UXO (ordigni inesplosi) sparsi tra i campi qua intorno. La mia attenzione viene pero' catturata da un lungo missile terra-aria di produzione russa, lungo una decina di metri e posto in mezzo al villaggio, poco distante dalla scuola! Non penso Pa'am veda molti stranieri, forse qualche impiegato di NGO. Gli sguardi esterrefatti e i saluti genuini dei locali, come sempre, mi fanno piacere.
Dopo un delizioso Lao Kafe' mi rimetto in marcia, supero il fiume, domo lo sterrato e punto su Paksong, al centro del Bolaven Plateau: la coffee-capital del Laos. E' una giornata ventosa e una volta giunto ai margini dell'altopiano la strada termina di salire; fermo la moto e assaporo il panorama: vasto, limpido, grandioso. Vengo scosso da una sensazione di appagamento; sorrido. Prima di giungere a Paksong attraverso piantagioni di caffe' e piccoli villaggi dove neri chicchi sono sparsi ad essiccare a bordo strada. Saluto i bambini che tornano da scuola e slalomeggio tra le profonde buche che tempestano questo tratto di strada asfaltata. Parcheggio la moto alla guesthouse e mi fiondo in bagno a scrostarmi la faccia impolverata.
Quarto giorno: il primo motivo di un viaggio nel Bolaven Plateau e' il caffe': delizioso. Finalmente un ottimo concentrato di caffeina: nero, denso, aromatico. Allieva la mancanza dei miei 5 espressi giornalieri italiani. Il secondo motivo sono le cascate: alte, burrascose e celate dalla giungla. Quasi senza volerlo mi trovo a piedi lungo uno stretto sentiero, in discesa, nella foresta, a una decina di km da Paksong. Sento il rumore pieno dell' acqua, ma non la vedo. Scorgo invece un serpentello che si allontana nel sottobosco. Sobbalzo. Continuo a scendere. Il frastuono aumenta. Infine scorgo la cascata, nascosta tra la fitta vegetazione. E' costituita da una serie di salti e io sono finito ai piedi di una piccola pozza, dove termina una cascata alta circa 3 metri. Fa molto caldo e la camminata mi ha fatto sudare. Non c'e' e non puo' esserci nessuno; troppo isolato. Mi svesto, resto in mutande, entro nella pozza e alzo le braccia: l'acqua mi sbatte forte sulle spalle; sembro Robert de Niro in Mission! La doccia e' goduriosa e il sole che successivamente mi scalda la pelle mi rida' nuova energia. E' il tonico per coprire gli ultimi 30km e riconsegnare, nel pomeriggio, la moto a Pakse.

Chiudo questa esperienza tra le abili mani di una massaggiatrice laotiana: 1 ora di herbal & oil massage. Mi chiede se sto bene. "Tutto ok?". Lei sorride e io ricambio, pensando ai miei 4 giorni, 380km e la liberta' data dalla moto: eccezionale.
Rene'