lunedì 22 settembre 2008

Convalescenza a Darwin

Prima cosa: ho caricato le foto relative all'Indonesia. Cliccate qui per visualizzarle!
(oppure il link sulla colonna di destra)

Il giorno successivo al mio arrivo in Australia mi reco in ospedale. Al Pronto Soccorso del Royal Hospital di Darwin ricevo trattamenti ambulatoriali gratuiti (grazie a degli accordi bilaterali con l'UE) e nuove dosi di antibiotici. Il ginocchio e' ancora bendato e la ferita genera pus ma spero negli effetti del nuovo cocktail farmacologico.
La prima settimana di soggiorno australiano la passo al Gecko Lodge dove cerco di abituarmi a nuovi ritmi e consuetudini di viaggio. Accetto di malumore il fatto che d'ora in poi la maggior parte delle mie sistemazioni saranno costituite da camerate in ostello, con tutto cio' che ne deriva: rumore, compagni di stanza molesti, sporcizia, disordine, furti, puzza.
L'impatto con la valuta locale (dollaro australiano) e' uno shock. Tutto mi appare carissimo: dormire, mangiare, bere, spostarsi. I soldi entrano ed escono dal portafoglio ad una velocita' impressionante. I pasti economici nei ristorantini asiatici sono un lontano ricordo. D'ora in avanti colazioni, pranzi e cene vengono consumati nella cucina dell'ostello.
L'eta' media dei viaggiatori che incontro si e' decisamente abbassata: gran parte dei "work and holidayers" (i possessori, come me, di un visto annuale di tipo vacanza-lavoro) ha meno di 25 anni. L'attitudine di viaggio e' molto "party" e fracassona. O si lavora o si fa casino. Dove sono finiti i vecchi esploratori?
Chi viaggia per un certo periodo di tempo in Australia cerca di farlo on the road. Cio' permette di individuare due tribu' e due modi diversi di intendere il viaggio australiano. Da una parte ci sono i "backpackers", i rumorosi abitanti degli ostelli, dall'altra "quelli con il van", che affollano campeggi e caravanpark. Talvolta i due mondi vengono in contatto, soprattutto quando qualcuno "cerca" un passaggio e altri lo "offrono". Personalmente, non riconoscendomi in nessuno dei due gruppi, continuo a sognare di svegliarmi un giorno in possesso di un Toyota Landcruiser per poter esplorare le piste sterrate dell'immenso outback.
A Darwin passo due settimane di convalescenza. La mattina zoppico per le strade del centro mentre nel pomeriggio mi rilasso all'ostello, leggendo, scrivendo o navigando in internet. C'e' un clima tropicale, abbastanza umido. E' in corso la stagione detta "dry", perche', al contrario della "wet", non piove mai e il cielo e' sempre blu. Darwin e' una citta' che conta solo 200mila abitanti ma che e' distribuita su una superficie che in Italia ospiterebbe almeno 1 milione di abitanti. C'e' un piccolo centro dove ci sono uffici e negozi ed il resto e' fatto di case uni-famigliari con giardino. Di condomini ce ne sono pochissimi. Piu' che una citta' mi sembra un paese "allargatissimo". A piedi si puo' girare solo il centro; per il resto ci vuole un'auto. E' la prima citta' che vedo in Australia ed e' un sacco diversa da qualsiasi altro centro abitato visitato in Europa. Devo ammettere: non mi fa impazzire. Per fortuna qui la burocrazia e' snella e in 2 giorni mi ritrovo con codice fiscale e conto corrente. Pronto per un eventuale primo lavoro.
Finalmente, dopo molti mesi, incontro ragazzi italiani con cui scambiare due chiacchere! Conosco Silvia e Matteo, di Mestre, che sono gia' da 8 mesi in Australia e Lorenzo, un ragazzone di Pescara; sono loro a svelarmi strategie e tattiche per sopravvivere un anno in Australia; mi sembra di capire che serva, soprattutto, molto lavoro!
Qui vicino a Darwin c'e' il Kakadu National Park, dove hanno girato Mr. Crocodile Dundee, una delle tappe fisse di un viaggio in Australia. E' una regione molto vasta, ricca di acquitrini a nord, vicino al mare, e di cascate a sud, dove le pianure lasciano il posto ad altipiani rocciosi. Pur essendo in corso la stagione secca, i fiumi sono ancora carichi di acqua limacciosa e nei pressi della costa sono popolati da aggressivi coccodrilli. Alcuni gruppi rocciosi, che spuntano come monoliti da un terreno pressoche' pianeggiante, portano la testimonianza della milleniaria cultura aborigena. Dipinti misteriosi che parlano di leggende e tradizioni che si perdono nella notte dei tempi.
Esploro il parco con Silvia, Matteo e Jonas, un ragazzo tedesco; affittiamo un campervan 4x4 e ogni occasione e' buona per buttarsi sullo sterrato. Passiamo 3 notti al Kakadu, una delle quali sulle sponde dell' Alligator Billabong (un'ansa "morta" di un fiume): un campeggio selvaggio tra uccelli, canguri e zanzare, raggiunto dopo quasi 40km di strada sterrata. Anche noi come Mr. Crocodile Dundee.
Poi si ritorna a Darwin, in tempo per vivere un'altra delle notti insonni a vedere le partite dell' Europeo. Durissimo star sveglio fino alle 7 di mattina per assitere al termine di un pallosissimo quarto di finale. E' decisamente ora di cambiare. Il ginocchio da segnali positivi e di fronte a me si distende la vastita' del continente rosso.

Rene'

lunedì 15 settembre 2008

E infine... Australia

E’ una notte ad intermittenza, quella passata all’ospedale di Baucau. Il dolore mi sveglia in continuazione. Sudo. Un medico che mi visita nel corso della nottata predice che tra alcuni giorni tutto sara’ passato. Difficile crederci.
Alle 6 di mattina mi caricano su un pullman locale diretto a Dili. Il mio scooter e’ appeso sul retro. A parte il pedale del freno posteriore, che e’ piegato, non ha subito danni. Prima di mezzogiorno sono gia’ a Dili, dove il proprietario dell’ East Timor Backpackers mi carica sulla sua jeep e mi riporta all’ostello. Qui trascorrero’ una settimana di degenza, in attesa di prendere l’aereo per Darwin, Australia, il 7 giugno.
Sette giorni passati a leggere (poco, a dire il vero; ho terminato uno Spiegel abbandonato da un viaggiatore tedesco), mangiar pesante (non potendo muovermi, sono costretto a cibarmi al ristorante indiano a fianco dell’ostello; curry a tutte le ore), bere birra, guardare la tv (film e serie tv piratate: I Soprano, Heroes, Entourage) e a giocare alla Nintendo Wii (figata!) o a carte con gli altri personaggi dell’ostello: un giovane australiano che da quasi un mese cucina pranzi a buffet per tutto l’ostello; una ragazza inglese impegnata nel volontariato; un francese che lavora per l’Onu e un americano, esperto di informatica, che sta cercando di farsi assumere dal Ministero delle Finanze di Timor.
Dopo 2 giorni mi reco ad un pronto soccorso gestito da una ONG (una specie di Emergency) dove una infermiera mi toglie i punti perche’ la ferita e’ infetta. Sto prendendo antibiotici 3 volte al giorno ma non sembra facciano un gran effetto (sara’ perche' sono di produzione indonesiana?). Cerco di andare al Pronto Soccorso ogni secondo giorno ma la situazione non migliora. Cammino a fatica, non riesco a piegare il ginocchio e l’infezione e’ sempre presente. Vorrei tanto vedere un dottore ma l’ospedale dell’ ONU e’ off-limits (aperto solo per i dipendenti), quello statale e’ un delirio, un medico privato australiano non ha un attimo libero per i prossimi sei giorni e al Pronto Soccorso della ONG (dove i trattamenti sono gratuiti) c’e’ una marea di gente; un pomeriggio decido comunque di aspettare e mi faccio visitare dal dottore americano responsabile del centro: pur essendo ancora infetta, mi rassicura, non e’ una brutta ferita; e mi consiglia di recarmi all’ospedale appena arrivato in Australia.
Sabato 7 giugno. Mi disfo di alcuni vestiti in eccesso e della camicia, parzialmente lacerata, dell’incidente e mi reco di buona mattina all’aeroporto. E’ un momento importante del viaggio. Sto attendendo il primo aereo dopo quelli che mi hanno portato a Mosca, l’11 luglio 2007. Sono quasi passati 11 mesi. Ho attraversato l’Asia via terra.
Decollo su un piccolo aereo a doppia elica, una quarantina di posti di capienza, e mi lascio alle spalle Timor, l’Indonesia, il continente asiatico, storie eccezionali e fantastiche avventure.
Dopo un’ora e venti minuti sono gia’ a Darwin, nel immenso nord australiano. Oltre i vetri del taxi scorre un paesaggio ordinato, una citta’ pulita, poco traffico. Un tranquillissimo sabato. A tratti deserto. Arrivato all’ostello poco dopo mezziogiorno mi tocca aspettare fino alle 2 steso sul divano perche’ la reception e’ chiusa durante il lunch-break. Alcuni viaggiatori mi chiedono cosa sia successo al mio ginocchio (oltre a zoppicare, ho una vistosa benda). Quando parlo di Timor Est mi guardano strano: e’ un paese, e’ una citta’, e’ in Australia? Non capiscono; non conoscono.
Per loro sono un marziano, appena atterrato sul pianeta australe.
Rene'

domenica 7 settembre 2008

Nel regno dell' ONU

Se siete curiosi di sapere cosa fa l’ONU, questo misterioso istituto sovranazionale, una vacanza a Timor Est puo’ rivelarsi interessante. Il paese e’ infatti amministrato dalle Nazioni Unite, pur essendo indipendente dal 2002; per dovere di cronaca vi ricordo che e’ la nazione piu’ giovane della Terra.
Passeggiando per le strade di Dili (la capitale) non si puo’ fare a meno di notare le numerose ferite di un sanguinoso passato caratterizzato da colonialismo, saccheggi, rivolte, guerriglia e barbarie: edifici che cascano a pezzi, strade con enormi buche, segni di proiettili sui muri delle case, scritte violente, aiuole e parchi trasformati in campi profughi. Gli abitanti di Timor sono sempre stati dominati: prima dai portoghesi, poi dagli indonesiani e ora dai caschi blu dell’ONU. La presenza di questi ultimi, sia in termini militari che amministrativi, e’ massiccia. Le candide Toyota Landcruiser con i letteroni neri UN stampati sulle fiancate sfrecciano in mezzo agli sgangherati taxi timoresi; serve un occhio attento agli attraversamenti pedonali, per non finire stesi.

Il fatto che ci sia l’ONU induce la popolazione locale a pensare che qualsiasi straniero presente sul territorio sia in qualche modo coinvolto in lucrose attivita’ (i soldi che arrivano per la ricostruzione di Timor sono tanti, ma ben pochi finiscono nelle tasche della popolazione; penso vengano in gran parte utilizzati per alimentare la “macchina” ONU). La prima domanda che viene posta non e’ infatti “where are you from?” bensi “who do you work for?”; per chi lavori? Io spiego di essere un turista, un viaggiatore interessato a scoprire il paese. Stupore.
Di curiosi o intrepidi visitatori come me ce ne sono veramente pochi. Per lo piu’ si incontrano all’ East Timor Backpackers, forse l’unica sistemazione “budget” della capitale: 10 dollari USA (la valuta “locale”) per una notte in camerata su materassi minimi e rigide reti metalliche. Purtroppo, grazie all’ONU, i prezzi per gli stranieri sono molto inflazionati e cio’ che si paga non e’ per nulla relazionato a quello che si riceve. Un doloroso passo indietro, dopo tutte le camere singole delle quali ho goduto negli altri Paesi asiatici.
Timor sta abbastanza con il culo per terra (il reddito annuo pro capite, di poco sopra i 100 dollari, e’ tra i piu’ bassi del mondo): l’agricoltura e’ per lo piu’ di sussistenza, non c’e’ industria o terziario e gran parte degli alimenti devono essere importati. L’infrastruttura turistica e’ assente; significa quindi che per girare bisogna organizzarsi. Vi chiederete a questo punto a cosa serva tutto questo circo dell’ ONU. Presto spiegato: al largo della costa sud orientale c’e’ un grosso giacimento petrolifero. Insomma c’e’ sempre di mezzo l’oro nero! E la torta chi se la mangia? Banalmente: USA, Australia e politici locali controllano il petrolio; i portoghesi si occupano di telecomunicazioni (monopolio), i cinesi hanno in mano il commercio e i timoresi, ancora una volta, non riescono a fare i padroni a casa loro. E’ il colonialismo nell’ anno 2008.
Ma torniamo alle mie vicissitudini...
Visto che non sono qui a fare giornalismo d’inchiesta (anche se varrebbe la pena) decido di lasciare per alcuni giorni Dili e di avventurarmi nell’entroterra. Decisione saggia che mi pemette di incontrare dei volti un poco piu’ allegri rispetto a quelli incrociati nella capitale. Con uno scooter a noleggio – un temibile mezzo di produzione cinese, piu’ simile ad una bicicletta motorizzata che ad una moto – mi sposto a Maubisse, un gradevole e sgangherato paese su per i monti al centro dell’isola; si trova in posizione panoramica, a 1600m di altezza, circondato da colline avvolte in fresche nubi. Ogni volta che salgo di quota continuo a stupirmi di come, pur trovandomi in una fascia equatoriale, possa fare freddo a certe altezze; forse e’ dovuto al fatto che il fisico subisce uno shock termico al variare repentino delle temperature. Meno male che sono partito attrezzato da Dili; pantaloni, camicia, giacca a vento e sacco a pelo mi permettono di passare una ottima nottata: una super dormita, in camera singola, su un comodo materasso. Al Bed&Breakfast dove alloggio si trovano anche 2 ingegneri, uno di Timor, l’altro indonesiano, che mi illustrano il progetto al quale stanno lavorando: una serra per la coltivazione di ortaggi poco lontano da Maubisse. Chiaccherando con loro ho la conferma della disastrata situazione dell’economia locale; ogni piccolo passo, ogni miglioria – mi spiegano – e’ una grande conquista.
In una lunga giornata alla guida del mio mezzo lascio il B&B e arrivo a toccare le acque della costa orientale dove una incantevole ragazza mi riempie il serbatoio con la benzina necessaria per tornare a Maubisse. Scelgo di percorrere una strada alternativa per raggiungere l’altopiano: sulla carta e’ piu’ breve ma ben presto si rivela... parecchio accidentata. Il percorso taglia dritto dalla costa fino a Maubisse e sale ripido, serpentino, sui fianchi delle montagne. L’asfalto lascia subito strada ad uno sterrato che da ciottoloso, complice il clima umido, si trasforma in fango. Procedo molto lentamente, con cautela, e, quasi miracolosamente, raggiungo la cima del passo senza scivolare. Arrivo alla base che e’ gia’ buio, mi riempio lo stomaco e mi infilo a letto sfinito.
L’indomani rientro a Dili per un breve pit stop; decido infatti di ripartire quasi subito, nel primo pomeriggio, alla volta di Baucau, la seconda citta’, per numero di abitanti, di Timor.
La strada segue la linea costiera ed e’ molto scenica; spiaggie di sabbia bianca si alternano ad alte scogliere rocciose. E’ una costa frastagliata, dove l’azzuro del mare contrasta con le tonalita’ gialle e marroni della vegetazione, fatta di piccoli alberi, arbusti e lunghi, taglienti, fili d’erba. La carreggiata e’ sinuosa; l’asfalto e’ ok. Faccio sosta per alcune foto; poi riparto. Tutto procede bene. Mi rilasso. Troppo.
Entro spedito in una curva. A questo punto l’istinto mi dice di evitare la frenata brusca; rischio infatti di cadere sull’asfalto e di sbucciarmi tutto. Opto quindi per una decelerazione dolce. Allargo la traiettoria della curva finendo prima sulla ghiaietta al lato della strada e poi sull’ erba dove un sasso, nascosto sotto la vegetazione, interrompe bruscamente la corsa dello scooter e mi proietta in aria oltre il mezzo.

Crash, boom, bang

Accade tutto molto in fretta. Atterro faccia in giu’, nell’erba. Mi rialzo prontamente e inizio a controllarmi freneticamente. Tasto il viso con le mani. Perdo sangue. Ho il naso sbucciato, abrasioni sul labbro e all’interno della bocca. I denti ci sono ancora tutti. Sospiro di sollievo. Poi qualche graffio sul braccio, poca roba. Avverto un dolore, che si va intensificando, al piede destro; ho la caviglia slogata. Piu’ in alto, all’altezza del ginocchio, proprio sulla rotula, individuo un taglio lungo un centimetro, abbastanza profondo. Dalla ferita sgorga una striscia di sangue che mi riga la tibia. Sono in uno stato di semi-shock e mi muovo in continuazione. Raccolgo lo zaino, cerco l’acqua, rialzo il motorino. Intanto si e’ fermato un pick-up con a bordo 3 persone del posto. Mi offrono dell’acqua e dei fazzoletti. Mi sciacquo e cerco di pulire le ferite. Sono pieno di polvere. Cerco di far mente locale. Mi dicono di essere diretti a Baucau e si offrono di caricare lo scooter, me compreso, sul retro. Accetto.
Non ricordo quanto tempo e’ passato su quel pick-up, seduto su una cassa, con una mano attaccata allo scooter e l’altra al fianco della macchina. Forse 1 ora, forse di piu’, in preda ai sobbalzi, alle frenate, ai dolori. Ogni tanto qualcuno dall’interno dell’abitacolo si girava e mi faceva dei cenni; forse controllava se ero ancora li; che non fossi volato via...
La corsa termina al Pronto Soccorso di Baucau. Difficile da descrivere. Una accozzaglia di piccoli edifici; a tratti sembra di trovarsi in una scuola abbandonata. Sale vuote. Altre con rifiuti e vecchi mobili accatastati. Non riesco a camminare. La caviglia si e’ gonfiata e mi fa molto male, cosi come il ginocchio. Due infermieri mi sorreggono e mi aiutano a raggiungere una stanza. Qui un altro infermiere mi fa stendere su un lettino ed inizia a disinfettarmi le ferite. Mi trovo in una piccola stanza, sporca, con attrezzature mediche sparpagliate a destra e a manca. Mentre ricevo le cure arriva un altro paziente, trasportato da 4 persone, che finisce su un lettino vicino al mio. Non so cosa sia successo a lui. Mugugna, soffre, si tocca un fianco e per ben 2 volte rischia di cascar per terra. Non oso guardare. Intanto l’infermiere e’ arrivato al ginocchio, prende un ago, mi guarda e dice “now pain”. Cazzo, capisco cosa ha in mente. Una sutura senza alcun tipo di anestetico. Metto una mano in bocca e la morsico mentre il tipo procede con le operazioni di piercing. Per fortuna il taglio non e’ troppo lungo, altrimenti sarei sicuramente svenuto!
Terminate le cure mi chiedono se ho un posto dove stare. Rispondo di no. Non so dove andare e non ho la forza di muovermi. Chiedo se c’e’ un letto libero qui all’ospedale. Mi fanno quindi accomodare in un’altra stanza con due letti. Mi sdraio e cerco di capire se hanno qualcosa da mangiare. Dopo una ventina di minuti l’infermiere che mi ha assistito mi porta una ciotola di pollo speziato con del riso bollito. Mangio tutto. Inghiotto una pillola di anti-dolorifico e cerco di dormire. Fuori e’ buio. Sogno di potermi addomentare e di svegliarmi guarito. Sogno.
Rene'

lunedì 1 settembre 2008

Sintesi indonesiana

Mettetevi comodi o stampate: ho scritto molto.
Da Sumba a Timor mi sorbisco la traversata in nave piu’ lunga del viaggio in Indonesia: 32 ore, in quanto faccio scalo a Flores prima di raggiungere Kupang, il principale porto sull’isola di Timor. Il battello, come al solito, e’ una specie di carretta del mare un poco arrugginita (cigolii che provocano ansia) dotata tuttavia di alcuni pregievoli confort come una zona con aria condizionata dove per alcuni spiccioli si puo’ affittare un materassino, da stendere per terra, sul quale passare la notte e la tv via satellite, buona per vedere un film in inglese (il patriottico "Beyond enemy lines" – storia di un pilota americano abbattuto in Serbia durante i bombardamenti Nato, solo contro tutti, ma ce la fara’) oppure una gara di MotoGP (anche in Indonesia, Rossi-mania).
Kupang e’ l’ultima citta’ di una certa dimensione (300mila abitanti) che visito in Indonesia ed e’ anche un po’ la summa di questi rocamboleschi 60 giorni nell’ arcipelago. Trafficata, rumorosa, talvolta sporca e caotica ma, in fondo, molto friendly.

Il bemo di Kupang

Cos’e’? Il bemo e’ un taxi collettivo che si trova in tutte le citta’ dell’ Indonesia. Nella forma di un furgoncino, ospita solitamente 8 persone ma non c’e’ un vero limite alla capienza. Gira su rotte fisse che sono identificate dai colori del bemo oppure da numeri. Si ferma a richiesta dei passeggeri. Oltre al conducente (poco piu’ che maggiorenne nella maggior parte dei casi) impiega uno “strillone” che, aggrappato alla porta scorrevole, all’esterno dell’abitacolo, richiama l’attenzione dei passanti urlando le destinazioni e ferma il mezzo battendo con la mano sul tetto. Il bemo e’ privato e c’e’ quindi una agguerrita competizione per ogni passeggero, anche sulla medesima rotta.
A Kupang ho visto i bemo piu’ belli e fracassoni di tutta l’Indonesia. Esiste un vero e proprio fenomeno di tuning, per avere il mezzo piu’ figo della citta’. La musica e’ un elemento essenziale e viene sparata senza pieta’. Sotto i sedili paralleli nel retro del furgone (dove ci si siede di lato e si viaggia uno di fronte all’altro) sono alloggiati enormi casse e woofer; quando la musica e’ alta, il culo vibra e l’orecchio duole. L’interno e’ “cuscinato” e predominano colori come il rosa e il verde acqua (forse per fare un piacere alle ragazze). Circolano comunque anche dei bemo piu’ cazzuti, roba da maschi, interni neri e musica rigorosamente rock (Guns & Roses e Metallica). L’interno, oltre all’imbottitura, e’ tapezzato con poster di popstar (Britney e Avril tirano) e calciatori (Cristiano Ronaldo).
Sulla carrozzeria, all’esterno, spesso si trova il nome del bemo: un enorme adesivo catarinfragente che titola “Love Britney”, “Man U”, “Riccardo Kaka’”, “Azzurri”. Ragazzi, roba incredibile. Fatti per me inspiegabili. A Timor la presenza cattolica e’ forte e talvolta si vede in giro un adesivo di Gesu’ con la corona di spine o della Madonna.
Poi ci sono i lunghi antennoni, che non servono a nulla, perche’ non c’e’ il CB. La carena e’ lucidissima, perfetta, con vernice metallizzata. Particolari cromati. Cerchi in lega. Assetti ribassati.
Di notte e’ uno spettacolo di luci; gli interni si tingono di rosa o blu grazie a lampade al neon; lo stesso accade sotto il veicolo: un colpo all’acceleratore e l’asfalto si colora.
Ogni bemo e’ personalizzato, bellissimo, e ho l’impressione che ci sia una certa fedelta’ nella clientela, del tipo, “io viaggio solo con il taxi collettivo del mio amico” oppure “su quello che mette la musica che mi piace”.
Si paga la corsa poco prima del proprio arrivo e si scende... al volo!

Altri mezzi di locomozione indonesiani

Da citta’ a citta’...
Pullman con aria condizionata: assegnazione dei posti, confortevoli, viaggiano di giorno e di notte e si fermano solo nelle autostazioni
Pullman senza aria condizionata: per spostamenti di corto raggio, non c’e’ un limite di capienza, si fermano su richiesta e in continuazione, velocita’ media intorno ai 25km orari, anche gli animali sono ammessi. Presenza costante a bordo di venditori ambulanti e cantautori locali dotati di chitarra. Frequenti guasti meccanici. Consigliabile dotarsi di infinita pazienza.
Treno: presente unicamente sulle isole di Java e Sumatra, rappresenta una gradevole alternativa al pullman.
Aerei: statisticamente non i piu’ sicuri al mondo; tuttavia veloci.
Nave: generalmente un vecchio scafo arrugginito, piu’ o meno affollato a seconda delle tratte. Anche le piu’ elementari norme di sicurezza vengono trascurate (si fuma ovunque). Dotati comunque di TV via satellite e VIP-spaces ad aria condizionata.
Charter: per i viaggiatori piu’ esigenti e danarosi; trattasi del noleggio di una macchina con autista.


All’interno della citta’...
Taxi: rapido e confortevole, va tenuto d’occhio il tassametro e la furbizia del tassista
Minibus (bemo): sapete gia’ tutto
Becak: riscio’ a pedali. Lento ma economico. Ottimo per il sightseeing. Molto diffuso.
Ojek: sicuramente il mezzo di trasporto piu’ utilizzato. Mototaxi. Non essendo richiesta alcuna licenza virtualmente ogni motorino e’ un potenziale taxi. Economico, puo’ tuttavia rivelarsi pericoloso. Non sembra esserci limite alla distanza percorribile.
Cidomo: carretto trainato da cavalli, ospita fino a 6 persone. Ecologico e nostalgico.
Benur: il nome forse deriva dalle bighe utilizzate nel film Ben Hur. Simile al cidomo ma utilizzato unicamente per il trasporto merci. Il conducente sta in piedi su una piattaforma, briglie in mano.

Popolazione amica

Gli indonesiani sono incredibilmente socievoli e simpatici. Sono stato subissato dagli “Hello Mister” e dalle richieste di conversazione. Praticamente in ogni citta’ o paese visitato ho fatto nuovi amici e scambiato numeri di telefono; al 99% sono stati momenti gradevolissimi. Un solo episodio sfortunato: il ricchione che mi ha rinchiuso nel suo appartamento a Jakarta. Rispetto ad altre popolazioni socievoli (es. Indiani) ho notato che l’indonesiano ha un genuino interesse alla conversazione; una curiosita’ sincera che non nasconde truffe o proposte d’affari.

Calcio-mania

Come in molti paesi del sud-est asiatico anche l’Indonesia e’ colpita dalla calcio-mania. Qui si segue soprattutto la Serie A (come in Cina) senza trascurare comunque Premier League, Liga Spagnola o Bundesliga. Le icone calcistiche sono Kaka’, C. Ronaldo, Lampard, Del Piero, Totti, Maldini. Adesivi e poster spopolano soprattutto su camion, motorini e taxi. Top teams: Milan, Inter, Man U, Chelsea, Liverpool.
A Kupang ho visto la finale di Champions League: una notte lunghissima. Il pomeriggio prima della partita ho affittato uno scooter e al momento della consegna – non ricordo come – ho conosciuto un ragazzino che mi ha subito invitato a casa sua per seguire la partita. E’ venuto a prendermi a mezzanotte in albergo e mi ha portato a casa di un suo amico. Qui, insieme ad altri 20 ragazzi, abbiamo seguito la partita. Menzione speciale per la casa: una piccola abitazione di 5 metri per 5, muri di legno e tetto in lamiera dove, in un’unica stanza, ci stanno a malapena letto e angolo cottura; sotto una piccola veranda, di fronte alla casa, alloggiano una TV dallo schermo enorme e 4 casse giganti, degne di una discoteca. In giardino staziona una antenna parabolica motorizzata. TV, casse e parabola costano probabilmente piu’ della casa. Quando chiedo lumi sulla loro presenza (e’ un dj? Organizza feste?) qualcuno mi spiega che, semplicemente, al tipo piace ascoltare musica ad alto volume.
La combriccola tifava quasi tutta Man U (partita pallosa) e io, da bastiano, parteggiavo per il Chelsea. Isteria totale ai gol. Sedie che partivano in aria, abbracci, pacche sulle spalle, vicinato svegliato: una gioia che rasentava le lacrime. Al termine dei rigori partiva un carosello di scooter (alle 6 di mattina, tra le prime luci dell’alba); io insieme ad altri 2 ragazzi: in 3!
Affascinante follia indonesiana.
Memorabili momenti, come quello di un ragazzino che, in mezzo ad una banda di mini calciatori in un campetto di paese, mi rincorre urlando “hello mister, my name is Frankie!” (indossava una t-shirt con l’immagine stampata di F. Lampard). Eccezionale.

Fino al confine e oltre


A Kupang conosco Edwin e Joel. Il primo e’ il gestore del Lavalon Cafe’, da tempi immemori un covo di viaggiatori; fino all’ultimo cerchera’ di realizzare il mio sogno di traversata marina fino in Australia. Invano. Ma almeno ci ho provato. Joel invece e’ un attore australiano reduce da 3 anni di recitazione in una soap opera (Home and Away, equivalente australiana di Un posto al sole). Amareggiato e deluso dallo show biz australiano, che reputa palloso e antiquato, si prepara ad un viaggio via terra verso Londra e nuove speranze di carriera. Un tipo simpatico.
Prima di raggiungere Dili e Timor Est faccio una tappa intermedia a Kefa, nell’entroterra, e mi godo gli ultimi sprazzi di indonesianita’: gente calorosa, cibo piccante e sfide serali a calcio con i ragazzini (Playstation 3!).
Il giorno successivo, nel corso del viaggio verso il confine il bus si scassa (ci risiamo...) e mi tocca aspettare un minibus di passaggio. Giunto ad Atambua, ultimo paese prima della frontiera con Timor Est, mi organizzo per coprire i restanti 30km che mi separano dalla “piu’ giovane nazione al mondo” (indipendente dal 2002). Viaggio in mototaxi e tutto fila liscio. Meno male. Chiudo senza graffi 2 splendidi mesi nel vastissimo e popoloso arcipelago indonesiano.
Supero quindi agilmente la dogana, sincronizzo l’orologio (+1) e chiedo un passaggio ad un camionista; sono quasi le 4 del pomeriggio e i mezzi pubblici hanno smesso di transitare a mezzogiorno. Per 5 dollari americani posso viaggiare insieme a lui e ad una partita di materassi fino a Dili (130km), la capitale di Timor Est, dove arrivo in una calda e buia notte di fine maggio.
Rene'

mercoledì 20 agosto 2008

Sanguinaria Sumba

Altra isola, altro traghetto. Dopo Flores e’ la volta di Sumba, una delle zone culturalmente piu’ interessanti dell’arcipelago indonesiano. Mi lascio alle spalle vulcani e foresta pluviale per scoprire un paesaggio caratterizzato da dolci e ondulate colline ricoperte da bassi arbusti ed erba giallastra e tagliente. Una terra arida, dura, battuta da forti venti oceanici; potrei essere in Spagna o in nel sud Italia, non fosse per quegli alti tetti di paglia che spuntano sulla cima di molte colline. Sono le case tradizionali di Sumba, un’isola dove antiche pratiche e rituali sono ancora fortemente radicate tra la popolazione. La guida che mi accompagna per una giornata di esplorazione dei villaggi (Boni) mi spiega che la posizione arroccata facilitava in passato la difesa della comunita’ dagli attacchi di tribu’ rivali mentre gli alti tetti di paglia, quasi conici, vengono tuttora costruiti per ospitare le anime dei defunti che, pur essendo deceduti, continuano ad abitare nelle stesse case.
Il rito funerario e’ probabilmente l’aspetto piu’ folgorante di una visita ad un villaggio tradizionale sumbanese; nel corso del funerale infatti, di fronte ad una numerosa folla, composta da tutti gli abitanti della comunita’, vengono sacrificati i beni piu’ importanti appartenuti al morto; beni che sono destinati a seguirlo nella vita dell’ oltretomba: galline, maiali, bufali e talvolta anche cavalli (una pratica, quest’ ultima, che il governo indonesiano sta cercando di scoraggiare), sgozzati a colpi di machete nel centro del villaggio, su un altare sacrificale. Nel corso della visita ad una comunita’, Boni mi avverte che tra pochi giorni ci sara’ un funerale dove verranno probabilmente uccisi 6 bufali. Sanguinario! Purtroppo il tempo per me stringe e non posso prolungare oltremodo la mia permanenza a Sumba per assistere a questo rito. In ogni caso non so se avrei retto alla visione delle mucche immolate a colpi di mannaia. Probabilmente la cosa mi avrebbe aperto le porte al mondo vegetariano.
Come a Flores, anche a Sumba gli abitanti piu’ importanti vengono sepolti in enormi tombe megalitiche, ornate da bassorilievi, al centro dei villaggi. Alcune tombe sono veramente grandi e per la sollevazione delle pietre sono necessari centinaia di uomini e lunghe giornate di sforzi.
Sumba e’ decisamente un’isola poco turistica. Dimenticate la massa di Bali. Qui le onde capricciose dell’ oceano Indiano si infrangono su spiaggioni deserte di sabbia bianca e molti abitanti vestono ancora con abiti tradizionali, finemente ricamati; gli uomini con la daga infilata nella cintura e una sciarpa annodata in testa. In quattro giorni gli stranieri li ho contati sulla dita di una mano. La visita ai villaggi e’ stata affascinante, un’esperienza autentica, quasi antropologica fatta da gesti semplici, ma carichi di significato. Vi spiego: Boni mi presenta all’anziano capo della comunita’ - una figura quasi regale - alle quale io offro pacchetti di sigarette e manciate di noce moscata (qui la masticano in continuazione; una roba amarissima e leggermente narcotica). Questi, seduto sotto il tetto spiovente della sua abitazione, ornata con teschi di mucche e maiali sacrificati, accetta di buon grado le offerte e acconsente quindi alla visita del villaggio. Insieme alla mia guida e accompagnato spesso da una allegra processione di bambini, ho cosi il permesso di fare foto e di entrare in alcune case. In una delle visite mi e’ capitato pure di partecipare ad un rito sciamanico, con lo stregone che, dopo aver preparato una mistura di noce moscata e liquido (saliva?), mi spalmava il tutto sulla fronte pronunciando misteriose frasi. Roba da brividi lungo la schiena.
Rene’

giovedì 14 agosto 2008

A spasso per Flores

L'isola di Flores e’ raggiunta dopo 9 ore di traghetto da Sumbawa. Una traversata tranquilla, quasi sonnolenta, salutata per alcuni secondi da una coppia di delfini. Labuanbajo (o Bajo), il porto di arrivo, e' un puzzolente villaggio di palafitte che gode di un certo fascino. La baia sulla quale si affacciano le case e gli scoscesi pendii ricoperti di vegetazione che si tuffano nel mare sembrano usciti dalla matita di Hugo Pratt; uno scenario degno delle avventure di Corto Maltese.
A poche miglia marine da qui si trovano le isole di Comodo e Rinca, abitate dai temibili draghi, lucertoloni lunghi un paio di metri noti per il fatto di essere carnivori e sempre affamati. Le isole fanno parte di un parco nazionale e le visito insieme ad un gruppo di altri viaggiatori. Il ranger che ci accoglie al campo base di Rinca ci porta a passeggio per un paio di ore e ci aiuta a individuare un dragone, addormentato all'ombra di una roccia; l'animale, ci spiega, e' in fase digestiva perche' negli scorsi giorni si e' pappato un cerbiatto. Apprendiamo inoltre che i dragoni non ammazzano e si cibano subito delle loro vittime ma le morsicano infettandole con la loro saliva; questa causa una malattia mortale nella sfortunata bestia che viene sorvegliata dai dragoni fino al decesso: un appostamento che puo' durare settimane. Quando c'e' una particolare carenza di cibo, i dragoni si ammazzano anche tra di loro: cannibalismo!
Dopo alcuni giorni a Bajo, all'estremita' occidentale di Flores, mi sposto verso est, raggiungendo il centro dell'isola. Visito i paesi di Ruteng e Bajawa, nell'entroterra, dove di notte fa sorprendentemente freddo; intorno ai 10 gradi. Il paesaggio intorno a Bajawa e' particolarmente attraente: foreste umide e lussureggianti, vulcani dai coni perfetti, villaggi tradizionali dove si vive ancora in case dai tetti di paglia. Ingaggio un moto-taxi per una giornata intera con lo scopo di esplorare alcuni villaggi della zona. Il primo che visito gode di una posizione spettacolare su un balcone naturale all'inizio di una stretta vallata: vulcano alla destra, colline sulla sinistra e l'azzurro del mare sulla linea dell'orizzonte. Poco lontano, nel fitto della foresta, due torrenti, uno d'acqua gelida, l'altro bollente, si uniscono per formare un naturale bagno termale; godurioso. Approfitto per farmi la prima "doccia" calda dopo settimane.
Nel pomeriggio faccio tappa al villaggio di Wogo. E' in corso il funerale (rito cattolico) di una anziana abitante. Qui incontro Ervin, una ragazza del posto, che parla un ottimo inglese e mi spiega alcune tradizioni della popolazione locale (gli Ngada), tra le quali quella di seppellire le persone piu' importanti nel centro del villaggio sotto strutture a forma di ombrellone o di casa in miniatura; queste vengono "consultate" prima di prendere decisioni importanti come la semina, il raccolto o i matrimoni. Una interessante e misteriosa commistione di cattolicesimo e animismo. Mi porta a vedere anche delle pietre megalitiche, alte fino a 3 metri, dalle origini e significato oscuri. Al termine del funerale Ervin mi invita in alcune case (dalle strutture rettangolari di legno, a un piano, rialzato, e dal tetto di paglia) dove i parenti della defunta (praticamente tutto il villaggio) si sono riuniti e stanno consumando un pasto. Anche a me viene offerto un piatto; trattasi di riso stopposo con fagioli e pezzi di carne (forse maiale) gommosi e di difficile masticazione; cerco di fare del mio meglio e mangio almeno il riso: non voglio offendere nessuno! Dopo che Ervin mi ha presentato ad una decina di persone vengo portato in un'altra casa dove mi ritrovo nuovamente con un piatto (identico) sotto il naso; ugh! Stesso rituale di prima. Sulla soglia della terza casa pero' prendo la ragazza per un braccio e la imploro di terminare il giro di presentazioni; ho lo stomaco che mi sta per scoppiare! La saluto e chiudo questa esperienza culturale veramente particolare.
Ritorno a Bajawa che e' ormai sera e buio pesto. L'unico locale aperto sembra essere la stanza al piano terra di una casa dove un gruppo di ragazzini, seduti sul pavimento, sta giocando alla Playstation 2 su tre differenti televisori (deve essere la sala giochi del paese). Ficco il naso e subito mi invitano a una sfida a calcio; gioco alcune partite con l'Italia, vincendole quasi tutte; mi diverto un sacco a urlare in faccia ai ragazzini "Pippooooo!" o "Gila!" ad ogni gol. Piovono pacche sulle spalle e risate generali. Football mania.
Dopo Bajawa faccio tappa alle pendici del vulcano Kelimutu. L’attrazione del luogo e’ la presenza di 3 laghi colorati all’interno della caldera: uno marrone, uno quasi nero e un altro turchese. Spettacolare. Sembrano tempere sulla tavolozza di un pittore. La colorazione delle acque e’ dovuta alla presenza di minerali nella roccia. Secondo una tradizione locale i laghi sono abitati dagli spiriti dei morti. Dalla cima del vulcano riesco a scorgere l’azzurro del mare lungo le coste meridionali e settentrionali (l’isola e’ abbastanza stretta) e, sforzandomi, arrivo quasi a vedere la punta orientale dell’isola. Il paesaggio e’ una successione di vulcani, molti dei quali attivi e con i coni fumanti.
Flores e’ tutta un saliscendi: strade tortuose, serpentine, strette vallate, burroni e ripidi pendii. Il suolo e’ nero e spesso ricoperto da una fitta vegetazione tropicale. Una splendida e capricciosa isola vulcanica.
Una guida del posto mi racconta che hanno appena evacuato una zona a est dell’isola in quanto stanno aspettando il “botto” di un vulcano. Wow. Tranquilli, io sto andando nella direzione opposta. Termino il soggiorno a Flores nella citta’ di Ende, una delle piu’ grandi dell’isola, dove, sul lungomare, c’e’ un vivace mercato del pesce; freschissimo. I tonnarelli appena pescati sono ancora sanguinolenti e finiscono abbastanza in fretta, una volta tranciati, dalle barche sul retro di un pick-up. L’odore penetrante del pesce si mischia in continuazione a quello piu’ fresco degli ortaggi, in vendita poco piu’ in la. Tutti gli scarti finiscono poi tra le sabbie nere della spiaggia, preda delle fauci di chiassosi gabbiani o dribblati da schiere di ragazzini alla rincorsa di un pallone. Travolgente realta’ indonesiana.

Rene'

sabato 9 agosto 2008

Global tropical village

Vi do le coordinate spazio temporali, per fare chiarezza e evitare confusioni. E' la fine di aprile e sto lasciando Bali. Un battello di legno lungo una quindicina metri, mi porta insieme ad altri 10 viaggiatori verso le isole Gili, al largo di Lombok. Sei ore, cullati da un ritmico basculamento che mette a dormire i piu'.
Trawanggan, Air e Meno sono i nomi delle 3 isole che formano l'arcipelago delle Gili. Minuscole gemme coralline incastonate in un mare di un colore blu profondo. Un ottimo posto per fare snorkelling, immersioni, rilassarsi e viziarsi con ottima cucina e vivaci serate danzerine. La piu' grande delle 3 isole - Trawanggan - si gira in meno di 1 ora in bicicletta... Piccoli paradisi di tranquillita': sulle isole non ci sono strade asfaltate; quindi zero auto e zero motorini; solo biciclette, con le quali ci si insabbia, e cidomo, dei piccoli carretti trainati da cavalli.
Le isole sono una destinazione molto popolare tra i viaggiatori, probabilmente grazie alla vicinanza di Bali, e sono quindi diventate una tappa fissa dellla "ruta backpackers" nel sud-est asiatico. Ovviamente, come ho gia' notato in posti simili (soprattutto in Laos e in Thailandia), cio' significa una rinuncia dei connotati locali, in questo caso indonesiani, per adattarsi alle necessita' del viaggiatore global. Fenomeno questo che ha colpito soprattutto Trawanggan, dove si trova di tutto, dal cappuccino alla pizza, dagli hamburger agli untissimi fish & chips. C'e' chi gode e si arena su queste spiaggie per 1 mese e c'e' chi storce il naso e scappa dopo alcuni giorni; come avrete ormai capito, io ricado nella seconda categoria. Cio' non toglie comunque che anche io approfitti della insonnia festaiola delle isole e dei suoi agi; per 2 notti consecutive finisco a letto alle 6, causa semifinali di Champions League, tra inglesi ubriachi e indonesiani football-maniaci. Inoltre la consapevolezza di trovarmi nell' ultimo party-place prima dell'Australia mi spinge a darci dentro. Conosco alcuni tipi interessanti: un istruttore di sub italiano; un gruppo di ragazze olandesi, una delle quali invaghita del subacqueo; un ragazzone tedesco reduce da 5 mesi di lavoro a Jakarta, con il quale mi confronto sulle follie notturne della capitale indonesiana.
Lascio questo villaggio globale dopo 6 giorni, 3 dei quali passati a Gili Trawanggan e 3 a Gili Air. Attraverso quindi in pullman e frettolosamente l'isola di Lombok; decisione che, a posteriori, rimpiangero', in quanto l'isola ha molto da offrire: oltre alla ultra-socievole popolazione indonesiana, c’e’ un vulcano di oltre 3000m, foreste pluviali e una selvaggia e incontaminata costa meridionale, battuta dalle spumeggianti onde dell'oceano indiano.
In meno di 24 ore mi ritrovo quindi a Sumbawa Besar, la maggiore delle citta' sull'isola di Sumbawa: destinazione numero 5 del mio "island-hopping", dopo Sumatra, Java, Bali e Lombok.
Nota farmacologica: a partire dalle isole Gili ho iniziato a drogarmi quotidianamente con una pillola di Malarone, per prevenire la febbre malarica; le aree che sto visitando sono infatti considerate a rischio.
A Sumbawa mi ritrovo di nuovo totalmente immerso nella "esperienza indonesiana": assenza di viaggiatori stranieri e gente che mi saluta in continuazione, vogliosa di iniziare una conversazione. Il mio Bahasa Indonesia sta progredendo e mi avvicino ora ai 5 minuti di chiaccherata basic.
La permanenza a Sumbawa, come a Lombok, e' breve. Sto iniziando a contare i giorni che mi restano sul visto turistico; la strada fino a Timor Est (e l'Australia), ancora lunga e, soprattutto, imprevedibile, mi spinge ad accelerare il ritmo del viaggio. Mi sparo tre quarti dell'isola in una sfiancante giornata di spostamento. Copro i 250km che mi separano da Sape - il porto dove mi imbarchero' per l'isola di Flores - in 13 ore, ad una media di 20km all'ora, a causa di guasti meccanici e di un bus che si ferma in continuazione a far salire e scendere passeggeri. Sono stretto tra due file di sedili con un sacco di riso sotto i piedi che mi costringe in una posizione rannicchiata, a ginocchia raccolte, che ammazza lentamente gambe e fondoschiena. Sono pieno di dolori e non riesco a spostare i piedi oltre il sacco di riso in quanto il pavimento del pullman e' surriscaldato e mi crema letteralmente le suole delle infradito. Fa talmente caldo che gli zipper metallici dello zaino della mia vicina di posto sono diventati incandescenti e uno mi ha ustionato il polpaccio! Il bus e' zeppo di persone e animali (galline in maggioranza) e non c'e' posto piu' neanche per uno spillo; anche se sono l'unico straniero in viaggio, questa volta c'e' poca voglia di scherzi e sorrisi: stiamo tutti soffrendo e speriamo che questo tortura finisca presto. Quando allo scoccare delle 20 arrivo alla pensione-palafitta sul molo di Sape sono talmente sfinito che non trovo neanche la forza di spaventarmi quando un rattazzo delle dimensioni di un gatto mi attraversa la strada nel corridoio. Casco in un sonno pesantissimo che si interrompe bruscamente alle 5 di mattina, quando l'implacabile muezzin della moschea di fianco all'albergo decide che e' tempo di chiamare a raccolta i fedeli. Allaaaaaaaaaaaaaahhhhh!
Rene'